Dalla rubrica “Parole in corso”
un pezzo di Gialuigi Beccaria, recensione di un libro che anch’io suggerisco a
tutti gli appassionati di belle lettere (S.L.L.)
Centouna interviste rilasciate
tra il 1951 e il 1985 compongono il volume, appena uscito da Mondadori, di
Italo Calvino, Sono nato in America…,
a cura di Luca Baranelli, con introduzione di Mario Barenghi. Tra le tante cose
(le sue città, gli autori che ama), moltissimi gli spunti legati alla lingua:
c’è una pagina mirabile sul dialetto, si parla molto del mestiere di scrivere,
dei travagli del comporre e del correggere, del trovare le parole giuste. C’è
anche una pagina dedicata ai dizionari che Calvino teneva a portata di mano: «uso
un dizionario che non è molto buono, però è pratico, il Palazzi: prendo una
parola vicina a quella che cerco e vedo tutte le altre parole che sono citate.
Uso anche, alle volte, il Tommaseo», «uso anche, soprattutto per cose di
nomenclatura, un dizionario della fine del secolo scorso che si trova in
antiquariato: si chiama il Premoli, è un po’ disordinato, un po’ pasticciato,
ma ci si trovano tante parole».
Lo scrivere – confessa Calvino –
è tentativo faticoso, una sorta di felicità e penitenza, un continuo escludere
e un ridurre. Porta il narratore ad allontanare la vita e i suoi umori, al
concentrarsi tutto sulla sola pagina, il foglio bianco su cui progettare e
montare rigorosi castelli di carta («Invidio molto lo scrittore ininterrotto,
che vive e scrive, per cui lo scrivere è una specie di prolungamento del
vivere»). Gli piaceva l’impianto artigiano delle cose, il fare delle
costruzioni che chiudessero bene.
In queste interviste ribadisce
più d’una volta il suo scarso amore per l’esuberanza e il rigoglio
dell’espressione, la predilezione invece per la misura, la discrezione, la
sobrietà, la concretezza, la semplicità e la leggerezza, la precisione
oggettiva del dettaglio, l’esattezza, certo non fine a se stesse, ma come una
sorta di ordinata solidità mentale capace di contenere il disordine del mondo,
la sua faccia irrazionale, oscura: simmetrie come sublimazioni di disimmetrie. Confessa
il suo amore per lingua semplice, che non ha bisogno di nessuna «ricarica»
espressionista o di contorsioni retoriche per affermare la propria presenza.
Non è d’accordo (lo dice in un’intervista rilasciata a Maria Corti) che il
narratore «carichi la frase di troppe intenzioni, ammicchi, smorfie,
coloriture, velature, impasti, piroette». Il massimo del risultato si ottiene
«se non con i minimi mezzi, almeno con mezzi non sproporzionati al fine che si
vuole raggiungere».
E in un’altra intervista del ’79
rilasciata a “Le Monde” torna sul tema del rigore cui tende la sua parola
scritta, che a volte pare così vicina a modelli logici o matematici: «In alcuni
miei libri – confessa -, la messa a punto della struttura mi ha impegnato più
della scrittura stessa; mi sento sicuro soltanto se la costruzione su cui
lavoro sta in piedi grazie alle sole proprietà del suo disegno».
“Tuttolibri – La Stampa”, 6
ottobre 2012
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