11.11.13

Vittorio Imbriani artista geniale, guastatore di mestiere (di Anna Tito)

Vittorio Imbriani
Intellettuale, politico, giornalista, scrittore, studioso, un po' filosofo. Per le sue infedeltà e le sue abiure, e per il suo istintivo bisogno di contestare tutto, Vittorio Imbriani fu denifito paradosso vivente — politico innanzitutto: da acceso patriota rivoluzionario e repubblicano divenne nel giro di pochissimi anni campione del conservatorismo, fautore della pena di morte cui dedicò addirittura l'Inno al Canapè. Questo scritto, forse più di ogni altro, contribuì a creare la leggenda della bizzarria dell'Imbriani.
Bizzarro lo fu, senza dubbio alcuno, ma anche geniale, e soprattutto estremamente contraddittorio. Tanto che delle diverse «facce» di Vittorio Imbriani si discute nel convegno in corso in questi giorni a Napoli (27-28-29 novembre), per iniziativa della Facoltà di lettere e filosofia e della biblioteca universitaria. «Vittorio Imbriani nel centenario della morte» è il tema dell'incontro, cui sono chiamati a parlare specialisti come Fulvio Tessitore, Giuseppe Galasso, Emma Giammattei, Alberto Cirese, Michele Rak, per citarne soltanto alcuni.
«Scolaro di molti maestri» fu definito l'Imbriani. E la sua vita breve ma intensa si svolse all'insegna di una composita formazione, cui egli impresse inoltre il segno di alcuni connotati tipici dell'ingegno napoletano: versatilità, mobilità, insofferenza per i totem e i tabù, gusto della polemica, istintivo bisogno di porre sempre tutto in discussione. Della «forma mentis», dell'anima, della cultura napoletana, riprodusse tutte le componenti costitutive, tranne una, quella costruttiva. Poco avvertì — diversamente da Vico, Spaventa e De Sanctis — il senso della convergenza della poesia con la filosofia.
Il primo tra i maestri dell'Imbriani fu a Torino Francesco De Sanctis; poi a Zurigo e a Berlino si nutrì di cultura tedesca, partecipando da protagonista al movimento dell'idealismo hegeliano. Cominciò a maturare una svolta decisiva in senso monarchico, in favore di una concezione più autoritaria dello stato. Nella sua Napoli, allora centro irradiante di filosofia e di letteratura tedesche, fu tra i seguaci di Bertrando Spaventa con il quale fondò il «Giornale napoletano di filosofia e lettere». Vinta una cattedra di estetica un anno prima della morte, ebbe fra i suoi allievi più fedeli il ventenne Benedetto Croce che da lui ereditò la curiosità per il Barocco.
Impossibile dar conto della complicatissima e sterminata bibliografia di Vittorio Imbriani, sparsa in decine e decine di articoli, dispersa in volumi introvabili, e in buona parte ancora inedita. Le sue opere migliori circolarono in edizioni semiclandestine: per protestare contro la smania di celebrità, stampava molto spesso poche decine di esemplari e li distribuiva agli amici più intimi. La sua attività, «pur impressionante per multiformità, non fu mai dilettantesca, bensì scientifica, specifica, seria. Egli volle studiare così a fondo ogni quistioncella, che fu spesso pedante» scrisse di lui Vincenzo Paladino.
Il testo esemplare della «critica negativa» dell'Imbriani è insieme la sua più feroce e clamorosa stroncatura di un capolavoro: il Fausto di quel certo «Gian Lupo di Goethe» (in Fame usurpate). Qui, non tanto colpisce l'intenzione dissacratoria, quanto l'apriorismo, in buona o in cattiva fede. Assolutamente privo qui quella dote essenziale del critico che è l'umiltà, non indaga la «verità» dello scrittore, ma nell'opera cerca una convalida della sua idea del Bello, o per dirla con lui, del «pulcherrimo».
Quanto poi alla sua prosa, critica o narrativa, non cessa mai di sorprendere un che di esibizionistico. Nella lunga diatriba tra pittori figurativi e quelli che allora apparivano come non figurativi, Imbriani sembrava trincerato con i primi, cioè con le cosiddette avanguardie: «...L'essenziale, il costruttivo di questo quadro non è né l'espressione delle figure, né la prospettiva, né la disposizione dei gruppi...». Allo stato sia pure embrionale, si riscontrano nelle sue parole i motivi tipici dell'estetica decadente. Nella questione della lingua fu antimanzoniano, come la sua poesia fu l'antipoe-sia. E, come abbiamo visto, ebbe per bersagli preferiti, in letteratura e in politica, «le fame» consacrate, l'autorità della tradizione o di chicchessia.
Un guastatore per indole e per elezione, abile «a dar di piccone e di trapano, e ad usar la fiamma ossidrica, catoniano fustigatore del malcostume, e del conformismo letterario», egli si pose contro gli «imbalsamatori di un'Italia pelasgica e scolastica, i fatui impagliatori di una letteratura accademica e municipale». Il tutto nel segno della tendenza cosmopolita e antiaccademica che è una costante della cultura napoletana e meridionale dal '600 in avanti.


ritaglio da “il manifesto” senza indicazioni di data, probabilmente novembre 1986

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