Uscì per Ponte alle Grazie nel
2009 il libro di Alberto Spampinato dal titolo C'erano bei cani ma molto seri. Storia di mio fratello Giovanni ucciso
per aver scritto troppo. Spampinato, a quel tempo quirinalista dell'Ansa, è
fratello di un giornalista dell'Ora di Palermo, ucciso a Ragusa a soli 25 anni,
il 27 ottobre del 1972. Il giovane aveva denunciato intrighi e complicità di
gruppi neofascisti, organizzazioni criminali e gruppi di potere nell’assassinio
di un antiquario locale, Angelo Tumino, rivelando il coinvolgimento del figlio
del presidente del tribunale di Ragusa, Roberto Campria, e l’irregolare
mantenimento dell’inchiesta in quella città. Fu proprio il Campria a sparargli
e ucciderlo.
In C'erano
bei cani Alberto Spampinato racconta la storia di quel delitto e insieme la
Sicilia e l'Italia di quegli anni. Nel capitolo finale svela le ragioni di un
libro scritto 37 anni dopo, esprime la volontà di approfondire e comunicare a
lungo soffocata, nella convinzione che “il dolore degli altri non sempre
suscita pietà” e che “spesso fa paura”, la stessa convinzione per cui aveva
lasciato Ragusa (“Insomma, rifiutavo la mia identità di familiare della vittima”).
Il giornalista spiega di aver mutato
prospettiva in un’occasione di lavoro. Il primo giorno di primavera del 2005,
in piazza del Campidoglio, egli seguiva il presidente della Repubblica Ciampi
che, quel giorno, partecipava alla «decima Giornata del ricordo e della memoria
delle vittime delle mafie» promossa da Libera.
Così racconta: “Vari oratori si
alternarono al microfono per leggere da un elenco i nomi delle vittime della
mafia. Un rosario di 640 nomi, in ordine cronologico dal 1893 in poi. Arrivati
al 1972 dissero il nome di Giovanni. Non me l'aspettavo, sentii un tuffo al
cuore, ma non dissi nulla alle persone che erano con me e non ci avevano fatto
caso. Sei mesi dopo provai la stessa emozione quando accompagnai Ciampi nella
visita alla Casa del Jazz di Roma, ospitata a Villa Osio, la splendida
residenza sequestrata al boss della banda della Magliana Enrico Nicoletti.
Ciampi si fermò alcuni minuti in raccoglimento all'ingresso, davanti a una
lapide che riportava i nomi di quelle centinaia di vittime della mafia. Di
nuovo, c'era il nome di Giovanni. Mafia!... Capii solo allora che non era
arbitrario chiamare mafia quel miscuglio di insabbiamenti, depistaggi,
contrabbando, traffici illeciti, trame nere, oscuri moventi, sentenze di
favore”.
Alberto sente allora che è tempo
di tornare a Ragusa. Scoprirà che negli anni della sua lontananza un giovane
storico, Carlo Ruta, di sua iniziativa, aveva ripreso il filo delle inchieste
di Giovanni e per questo si era scontrato con il magistrato che aveva condotto
le prime indagini, subendo una ingiusta condanna. Da qui la decisione di
riprendere il filo interrotto.
A commento del libro e a ricordo
dell’uccisione di Spampinato il quotidiano torinese “La Stampa” pubblicò un
commento assai acuto che qui riprendo. (S.L.L.)
Come in un romanzo di Sciascia
di Francesco La Licata
C'erano bei cani ma molto seri»
scriveva nel 1971 Giovanni Spampinato, ricordando la propria infanzia fatta di
gesti semplici - come mangiare i semi di girasole - eppure felici. E questa
vita breve, semplice e densa, modesta ma enormemente ricca di valori, di
ricerca di verità e giustizia, riesce a raccontare oggi Alberto Spampinato,
fratello del giornalista de L'Ora assassinato a soli 25 anni nell'autunno del
1972.
Giovanni era il naturale prodotto
del laboratorio politico e professionale che fu la redazione dell'Ora. Una
«centrifuga» azionata dal genio del direttore-padre Vittorio Nisticò (appena
scomparso), che esaltava le doti di ciascuno dei giovani approdati al
giornalismo attraverso la passione civile della difesa di chi non ha voce.
Giovanni muore ucciso da un giovane, figlio di un alto magistrato di Ragusa,
che non accetta la messa in discussione del «semplice principio» che chi ha il
potere possa essere più «uguale» rispetto alla legge. Ma Giovanni muore
soprattutto perché il mondo che lo circonda é pavido, intimorito dall'idea di
puntare il dito verso un potente che non è solo uno «scavezzacollo» ma il
«naturale prodotto» di un pezzo di società di quell'inizio degli Anni Settanta.
Giovanni indaga su un delitto -
come in un romanzo di Sciascia - e porta alla luce una realtà melmosa di
fascisti protetti dalle Istituzioni, di golpisti latitanti che prendono
tranquillamente un caffè nel bar più in vista di Ragusa, di terroristi in
combutta con mafiosi e malavitosi. Tutto questo è nascosto dietro il candido paravento
di una città allora considerata «babba», cioè tranquilla e sicura. Ma perché
muore, Giovanni, in mezzo a tanta «tranquillità»?
Questa domanda ha tormentato per
più di 35 anni Alberto, che per darsi risposte ha abbandonato la passione
scientifica a favore del giornalismo. Spampinato ha compiuto un intervento chirurgico
profondo, impietoso e doloroso. Ha inciso principalmente le proprie carni,
chiedendosi «Dove eravamo?» mentre Giovanni giocava la partita mortale. Già,
dov'erano tutti quando i «giornali ufficiali» siciliani ignoravano sistematicamente
le notizie che solo Giovanni scriveva esponendosi sempre di più agli occhi del
potere illegale e nella mente di quel giovane figlio del presidente del
Tribunale che, alla fine, premerà il grilletto? «Era fatale che finisse così?»,
si chiede Alberto Spampinato. «O qualcuno avrebbe potuto fare qualcosa? Me lo
sono chiesto mille volte. Nella mia mente ho processato il mondo intero, a
cominciare da me stesso e sono arrivato alla conclusione che molti avrebbero
potuto fare qualcosa».(“La Stampa”, 11 giugno 2009)
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