Il pubblico dei concerti di fine
secolo - nella descrizione di un romanziere come Fogazzaro - appare diviso fra
ascoltatori competenti, una minoranza eletta, e ascoltatori per passatempo,
tronfi nella sicumera che deriva loro da una condizione sociale elevata. La
«grande musica» del passato non fa parte dei loro orizzonti, vi entra solo a
forza in ossequio a un rito irrinunciabile che serve a marcare una
«distinzione» di gusti e dunque di ceto.
Certo è che maestri come Haydn,
Mozart o Beethoven vengono riconosciuti come tali solo attorno alla metà del
secolo. Mai prima d'allora composizioni di autori scomparsi venivano suonate
con regolarità e percepite con un alone di rispetto che sconfinava nella
sacralità. Fino a quel tempo, nelle occasioni in cui si faceva musica la
relazione interpersonale contava più della musica stessa. Fino alla metà del secolo
i concerti, in molte città europee, si chiamavano «promenades», avvenivano
all'aperto, davanti a un prato ove la gente (per lo più di classe medio-bassa)
passeggiava, parlava, faceva merenda, mentre luci e fuochi d'artificio
aggiungevano un tocco di psichedelia.
Poi l'avvento di orchestre
professionali mise a morte quelle amatoriali e si creò un repertorio ad hoc, fatto di autori del passato,
mentre il concerto s'impose come rito di appartenenza all'emergente civiltà
industriale e urbana.
Fino ad allora la musica non
aveva, come la letteratura e l'arte, modelli classici da imitare o a cui
richiamarsi: era un'arte orientata al presente. Ora invece si crea il mito dei
grandi maestri, da venerare, e il pubblico si divide in coloro che, con conoscenze
adeguate (musicisti di professione, dilettanti, operatori), vanno ai concerti
per celebrare la grande tradizione germanica, e coloro che, come prima, ci
vanno solo per divertimento. A quelli resta la musica più facile, quella
leggera. «Ecco conseguita, attorno al 1870, la frattura tra alto e basso:
musica leggera era tutto ciò che si poteva apprezzare senza aver bisogno di
sapere un gran che; musica classica era tutto ciò per il cui apprezzamento
avevi bisogno di un gusto acquisito. Solo l'opera era considerata come sempre,
come musica della quale non era necessario avere grandi conoscenze, ma queste
potevano comunque aiutare» (da W. Weber, Mass
Culture and the Reshaping of European Musical Toste, 1770-1870)
Da La musica italiana. Una storia sociale dall’Unità a oggi, Donzelli,
2011, in “alias – il manifesto”, 5 febbraio 2011
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