Il "bhava" della ballerina
La prima notizia che ebbi tramite
una lettera di una mia amica indiana: Rukmini Devi è morta. A questa lettera se
ne aggiunsero altre, più formali che mi informavano della morte di un illustre
personaggio indialo, Rukmini Devi, piangendo la morte della più grande
ballerina indiana.
Alcune lettere erano semplicemente
riempite da ritagli dei giornali. L'“Indian Express” pubblicava la versione
integrale del telegramma di cordoglio del presidente indiano. “The Times of
India” pubblica un corto curriculum della sua vita.
Le lettere continuavano ad
arrivare. Da Kalakshetra, l'accademia fondata da lei, venivo informata di nuovo
della sua morte. Le notizie si protrassero per alcuni mesi. Ero sommersa da
lettere che si arrogavano il diritto di annunciare la fine di Rukmini Devi,
personaggio politico per alcuni, culturale e sociale per altri. Era una morte
annunciata.
Da più di vent'anni la sua arte e
il suo personaggio erano diventati istituzione, e come istituzione erano stati
archiviati nei libri di storia, formando un capitolo finito.
Ma il suo passato era ancora
presente, nell'84 aveva girato con la sua troupe la Repubblica Popolare Cinese,
era venuta in Italia, manteneva stretti contatti con gli Stati Uniti. In tutti
questi paesi lei si mostrava al presente, non come nostalgia folkloristica, ma
immersa nell'attuale e nell'India. Nei moderni teatri del ricco mondo
occidentale apparivano le sue ballerine nelle vesti dei mitici personaggi, e il
pubblico bianco, ricco e privo d'illusioni applaudiva e si commuoveva di fronte
al «verbo sacro» delle tradizioni.
Le stesse scene in India riscuotevano
scarso successo, se non fra i vecchi appartenenti del movimento per la liberazione,
che avevano lottato per riconquistare le loro tradizioni e la loro terra.
Per i giovani e per tutti coloro
nati dopo il 1949 la cultura tradizionale è sinonimo del passato. Il presente è
caratterizzato dall'arrendersi al nuovo colonialismo commerciale, creato
dall'occidente.
È passato un anno dal mio ultimo
incontro con Rukmini Devi a Madras. La ricordo alzarsi dal suo enorme trono di
vimini ed indicarmi una sedia, anch'essa di vimini ma infinitamente più
piccola. Ricordo i passi silenziosi dei suoi collaboratori, il suo sorriso regale
nell'accogliermi, sapendomi straniera per nascita e per cultura. Rukmini Devi
era bella, di quella bellezza indiana dove niente si mostra, niente è esplicito.
La bellezza è casta e provocatoria, risiede nei capelli, nei gesti, negli
sguardi.
Sedeva immobile nel suo enorme
sari bianco. Nel suo studio avevano abbassato tutte le persiane e la penombra
la rendeva remota nel tempo. Un piccolo spostamento, un gesto della testa e
l'ombra creava Rukmini Devi a trent'anni, che con fiera bellezza sfidava la
morale comune, definendosi ballerina. Si spostò nuovamente e la vidi vecchia,
vedevo il gonfiore delle guance, il pallore del suo viso. Un altro movimento e
scomparve il gonfiore e la pesantezza, e fu di nuovo regina.
Prima di iniziare qualsiasi
conversazione mi fece portare un caffè da una signora anziana anch'essa vestita
di bianco. Rukmini Devi aspettò che finissi il caffè per porgermi un'enorme
busta di plastica verde: all'interno c'era un bellissimo sari di cotone intrecciato
con dei fili d'oro. «È solamente di cotone», quasi si scusò e poi sorrise. Mi
sentii uno sconosciuto ricevuto dalla regina.
Per raccontare la sua storia, il suo
personaggio e il suo impegno artistico si deve ricreare lo scenario di cui lei
faceva parte, l'India all'inizio del secolo, l'India che iniziava a svegliarsi
dopo 200 anni di rassegnazione.
1904 Madras.
Il sud di un paese dove il sud
era estremità, limite, bellezza, disperazione. Allora l'India era un ricordo:
esistevano gli inglesi, esisteva la ribellione e la rassegnazione. Resistevano
le tradizioni che condensavano il ricordo dell'India: un'immagine
cristallizzata nei riti.
In questi anni Annie Besant,
inglese, suffragetta pensò di riportare l'India all'India tramite la Società
Teosofica.
Propagandava l'universalità dello
spirito, l'amalgamarsi di tutte le religioni del misticismo indiano, scandito
dal razionalismo inglese e dal tormento russo. La fondatrice storica della
Società Teosofica, Helen Blavatzky era infatti russa. Lo scopo della Società
venne riassunto da lei in tre comandamenti: formare nuclei di fratellanza
universale, senza distinzione di razza, di fede, di colore, casta o sesso.
Incoraggiare lo studio comparato delle religioni, della filosofia e della
scienza. Investigare sulle leggi inspiegabili della natura e sui poteri latenti
nell'uomo. (Questi «poteri latenti dell'uomo» negli anni '30 furono
esplicitamente definiti «occultismo».)
All'inizio degli anni '20 Annie
Besant collabora con il movimento per la liberazione dell'India, pur non
accettando mai il concetto di disobbedienza civile di Gandhi. La Società
Teosofica diventò punto di riferimento per molti intellettuali indiani ed
europei. Il misticismo finì col colorarsi di socialismo.
Rukmini Devi crebbe in questo
duplice clima di misticismo e di rivolta. A 16 anni sposò George Arundale,
teosofo inglese molto più anziano di lei. Il matrimonio fece scandalo non tanto
per la differenza d'età quanto per la differenza di razza. Si rifugiarono
allora in Australia. Lì Rukmini Devi incontrò Anna Pavlova, la più famosa
ballerina russa. Da lei apprese i segreti della danza classica occidentale. Era
forse la prima volta che una donna indiana usava il proprio corpo come
strumento d'arte e lo mostrava senza vergogna, e senza volgarità.
La danza in India, pur avendo
origini antichissime non veniva allora considerata arte: era un espressione di devozione
verso gli dei. Ma, pur avendo questo carattere religioso, era una devozione dei
sensi: era la carne che si offriva. Una espressione impura. Le Devadasi
(ballerine dei tempio) erano prostitute divine, nulla più.
Rukmini Devi invece imparò a ballare
alla maniera occidentale, incurante del giudizio dell'India. Tornata in India
continuò a studiare danza e presto volle ballare la sua danza, quella del suo
paese. Il Bharatanatyam (Bharata: figura
leggendaria che stabilì i codici della danza ricevendoli da Shiva. Natyam,
danza). Riscoprì le fonti scolpite sui tempi, copiò i costumi dalle antiche
sculture, riscrisse le saghe dei mitici eroi che il ballo aveva il compito di
far rivivere.
1935. Rukmini Devi tenne la prima
rappresentazione pubblica di Bharatanatyam. Superando il momento puramente
devozionale e sensuale per arrivare ad un'arte intesa come creazione
individuale. Per la prima volta una donna indiana aveva preteso dal pubblico
indiano di accettare la danza come arte ed espressione. Rukmini Devi incontrò
gli ostacoli del perbenismo e della pubblica morale. Continuò a lottare, per e
con la sua arte sino ad ottenere di rappresentare liberamente al pubblico i
suoi balletti. Nel 1936 fondò Kalakshetra, un'accademia dove si insegna il
Bharatanatyam e la musica carnatica (musica tradizionale dell'India
meridionale).
L’accademia è costruita sulla
riva dell'oceano. Ogni aula è formata da una capanna di bambù e ricoperta da
foglie di palma, che oltre a mantenere fresco l'ambiente, rispecchiano il
rifiuto di Rukmini Devi a piegarsi ad un consumismo di tipo occidentale.
Allievi ed insegnanti iniziano la giornata alle 8.30 con preghiere tratte da
tutte le religioni, le lezioni continuano fino alle 12.00, ora del pranzo. Alle
13.30 riprendono le lezioni per altre tre ore.
Durante il Festival vengono
rappresentati interi poemi come la Ramayana
(storia di Rama), Mahabharata (storie
dei Pandavas) e la Buddhavatara
(storia di Buddha). Il Bharatanatyam, la. rappresentazione di questi miti sacri
attraverso la danza che si compone da diversi movimenti prestabiliti chiamati mudras. Ogni mudra esprime una parola o un concetto; si riesce così ad ottenere
una «trascrizione» letterale del testo. Le ballerine usano le mani, le dita e
le braccia per raccontare il volo di un uccello, la forza di un re, la bellezza
di un guerriero; ad ogni parola corrisponde un gesto. La ballerina potrà solamente
soddisfare appieno il pubblico se oltre a scrivere la storia riesce a trasportare
gli spettatori con lei nel racconto. Per ottenere tale risultato deve
aggiungere ai mudras il bhava, l'espressione del viso, la mimica
del sentimento. Tramite il bhava deve
rendere la paura, l'amore, la saggezza, in modo che lo spettatore rida, pianga
e sospiri con ogni suo movimento. Nel Bharatanatyam non esiste distinzione fra
ballo, musica e teatro, tutti i mezzi espressivi vengono impiegati pur di vivere
e di esprimere il sacro.
Durante il mio ultimo incontro
con Rukmmi Devi le avevo chiesto di parlarmi del Bharatanatyam. Rimase un attimo
in silenzio e quindi scandì: «La verità è la bellezza, e la bellezza è verità».
Così iniziò il suo pensiero, senza nesso apparente alla mia domanda, ma forse
non voleva rispondere. «Io aspiro», continuò «all'universalità dello spirito,
dell'arte. Voglio che la mia danza sia comprensibile a tutti!» Cosa vuol dire
ballare il Bharatanatyam?, continuai a chiederle. «Se una ballerina deve
impersonare Radha, l'amata di Krishna, e non crede a Radha e a Krishna, non potrà
mai mostrare il loro tormento; il tormento amoroso di Radha non avrà risposta tra gli spettatori.
Lei dovrà essere Radha in ogni attimo, per poterla rappresentare e per farla
amare».
Era di grande vigore spirituale.
Le chiesi cosa pensasse del balletto moderno occidentale, cose come il
repertorio di Linsday Kemp o del Wuppertaler-Theater, quella danza che si è
staccata dalle tradizioni classiche per una ricerca di nuovi metodi espressivi.
Ma lei, una donna che aveva dato la vita per un'arte spirituale rimase
impassibile: «La danza moderna mostra dei corpi brutti, delle situazioni
brutte. Potranno anche essere reali, ma l'arte ha il compito di trascendere:
tutto deve tendere al bello, alla spiritualità, all'estetica. La coreografia
moderna crea solamente delle forme geometriche a cui si adeguano i corpi». Lei
esprimeva la pienezza spirituale e il rigore morale che formano le innumerevoli
sfumature del tessuto culturale e spirituale indiano.
Rukmini Devi pretendeva dalle sue
ballerine che fossero effettivamente Radha, pretendeva una estrema coerenza con
i testi classici. Ma era stata proprio lei ad infrangere la tradizione e a
riportare la danza al suo paese, rivoluzionandone i canoni.
Lei non volle più parlare di
Bharatanatyam, quasi a non voler infrangere qualcosa di sacro. Raccontò invece
a lungo del suo primo viaggio in Italia, e del suo primo impatto con il
cristianesimo a Ravenna, guardando i mosaici bizantini: «Mi spaventai, tanta
crudeltà, dappertutto uomini; impauriti che scappavano dalle fauci di mostri
orribili e la figura del Cristo che alto si ergeva a giudice imponente e
minaccioso».
Come poteva lei accettare l'orrore,
anche se religioso provenendo da dove la bellezza e l'armonia coincidevano con
la verità? La verità di Rukmini Devi stava nella fede assoluta nella
spiritualità universale. Il Bharatanatyam rispecchia questa sua spiritualità nella
danza. Negli ultimi anni voleva vivere questo assoluto spirituale sempre e
comunque, nel cibo vegetariano, nel vestire solo tessuti naturali, nel pensare
solamente in maniera «retta». Tutto doveva tendere verso la purezza estrema. «Si deve entrare attivamente nel
mondo dei miti, si deve vivere e pensare come essi, essendo la verità riposta
in loro”.
"il manifesto", 4 agosto 1986
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