Dall'inserto di Repubblica per il centenario della morte di Victor Hugo, un pezzo di Beniamino Placido, che coglie un aspetto ignoto ai più della figura gigantesca dello scrittore francese. (S.L.L.)
Immagine dal film "Notre Dame de Paris" (1923) ispirato all'omonimo romanzo di Victor Hugo |
Che cosa sapeva, che cosa capiva Victor Hugo delle masse e
della civiltà di massa in cui viveva? Tutto, quasi tutto. Essendo uno scrittore
intelligente (uno dei più intelligenti del secolo) non gli sfuggiva nulla - o
quasi - di ciò che gli accadeva, di ciò che gli si stava formando, e
trasformando, intorno. La sua intelligenza era inconsapevole, accesa e confusa:
ma grande. Non si esprimeva per concetti, ma per figure. Però queste figure, se
le seguiamo passo passo nelle loro avventure, ci portano lontano.
Per esempio: per molto tempo ho pensato a Notre-Dame de Paris come ad un perfetto
manuale di comunicazioni di massa. Da consigliare agli studenti. Da adottare
nelle Università. Anche per sostituire - al più presto - i manuali vigenti,
noiosi e concettosi fino alla disperazione. Però, fino al 10 dicembre dell'
anno passato non osavo confidare quest'idea balzana se non a pochi amici,
pazienti e compiacenti. Poi, il 10 dicembre dell'84 è morto Victor Sklovskij,
critico letterario insigne, fondatore del formalismo russo. Il giorno dopo,
leggendo gli articoli commemorativi pubblicati sui vari giornali ho appreso
(che gioia! che sorpresa!) che anche lui la pensava allo stesso modo, ed allo
stesso modo si era espresso nelle ultime aggiunte alla sua celebre Teoria della prosa. E aveva ragione.
Ma vediamo i fatti, così come li racconta Victor Hugo in Notre-Dame de Paris (1831). Dunque,
siamo a Parigi nel 1482. Mancano dieci anni alla scoperta dell' America, e
questa è ancora la Parigi medievale piena di taverne e di mercati. Formicola di
mendicanti e di commercianti, di preti, di puttane e di briganti. E' giorno di
festa. E Pierre Gringoire - che è un intellettuale - sta per far rappresentare
un "mistero", una dotta e sacra rappresentazione di cui è l'autore,
ovviamente trepidante. Ma il sipario non fa a tempo a levarsi che qualcuno
protesta. Ma che "mistero"! Ma che sacro! Ma che profano! Perché non
mettiamo su una bella gara di "mascheroni"? Perchè non ci divertiamo?
Detto fatto. Si tira su un'impalcatura, una specie di cornice. E mentre il
povero Pierre Gringoire, intellettuale trepidante e scornato, si tira da parte,
a questa improvvisata finestra si affacciano i concorrenti. Vincerà chi avrà
atteggiato il proprio viso alla smorfia più mostruosa. C' è una
"smorfia" - atroce - che vince su tutte le altre. E' così orrenda che
quasi non la si sopporta. Basta, adesso! Hai vinto: smettila con quella
maschera! Ma il disgraziato vincitore non può smettere, perché quella non è una
smorfia, né una maschera. E' la sua faccia "naturalmente" deformata.
La faccia mostruosa e patetica di Quasimodo, campanaro di Notre-Dame.
Fine della prima lezione di comunicazioni di massa. Se hai
una folla, e la possibilità di scegliere tra diversi spettacoli, insomma di
"cambiar canale", il mascherone di Quasimodo la spunterà sempre sulla
rappresentazione - intellettuale e medievale - di Pierre Gringoire.
Ha inizio la seconda lezione. La folla comincia a
disperdersi, quando all' improvviso in un angolo della piazza si materializza
un nuovo punto di attrazione. C'è una figurina femminile esotica e delicata -
una specie di zingara - che danza. E' Esmeralda. L'accompagna, in queste sue
pubbliche esibizioni, una capretta bianca. Superfluo raccontare che cosa
accade. Come prima il mascherone di Quasimodo l'aveva avuta vinta sul
"mistero" di Pierre Gringoire, così adesso le evoluzioni della
zingara (alle quali la bianca capretta lasciva aggiunge delle connotazioni
sessualmente perfide) "sequestrano" la folla, la incantano.
Ed eccoci alla terza, decisiva lezione. In fatto di
comunicazioni di massa, Victor Hugo è un maestro. E un buon maestro. Non un
banale imbonitore. Non un dissipatore di frivolezze. Ha usato la smorfia del
campanaro, le mosse della zingara, la grazia della capretta per indurci a
seguirlo. Adesso ci sta portando nel cuore di Parigi. Anzi - e prima - nel
cuore del problema. Riesce ad infliggerci - ed a farci sopportare, divertendoci
- delle dissertazioni sulla società, sull'architettura, sulla cultura, che da
nessun altro sopporteremmo. Riesce a farci attraversare di buon grado quel
capitolo secondo del Libro Quinto ("Ceci
tuera cela") che non ho bisogno di raccomandare a nessuno perché è già
una lettura abituale dei buoni architetti, e che ha la dignità di una rigorosa
- anche se pittoresca - dissertazione "teorica". "Ceci tuera cela". Questa cosa qui,
la scrittura, ammazzerà quella cosa là, l'architettura. Anzi, l'ha già
ammazzata.
Non siamo soltanto alla vigilia della scoperta dell' America,
in Notre-Dame de Paris. Siamo anche alla vigilia dell'invenzione della stampa.
E Victor Hugo sa che il territorio delle comunicazioni di massa è un campo di
battaglia (come quello, a lui tanto caro, di Waterloo) dove chi vince
assoggetta gli altri. Determina il proprio e l'altrui destino. Un tempo l'umanità
si esprimeva soprattutto attraverso le sue pietre, le sue cattedrali. Oggi -
dopo l'invenzione della stampa: lo ha spiegato benissimo Giovanni Macchia nelle
pagine precedenti - l'umanità si esprime soprattutto attraverso i libri: che
sono un'altra cosa, e fanno altri discorsi.
E domani? E domani - cioè oggi, che leggiamo Victor Hugo a
cento anni dalla morte - altre cose sono avvenute, nel frattempo. Forse c'è
stata un' altra Waterloo e "ceci a tuè cela": forse l'immagine (prima
cinematografica, poi televisiva) ha ammazzato la stampa. Se non proprio
ammazzata, l' ha comunque battuta sul campo, le ha tolto il primato e il
monopolio della comunicazione, le ha assegnato - le sta assegnando - un altro
ruolo, un'altra funzione. Chissà. Devo dire - per finire - che è sempre così,
in Victor Hugo. E non solo in Notre-Dame. Il suo gusto della rappresentazione
spettacolare non è mai banale. Sempre, quando ci porta a vedere l' oceano che
mugghia, il cannone che tuona, la folla che tumultua, il mostro che ride, ci fa
anche intravedere - al di là di queste clamorose apparenze - un problema reale.
Angoscioso e irrisolto, forse. Ma reale.
“la Repubblica”, 9 febbraio 1985
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