Poche icone continuano a
brillare nella galleria degli eroi progressisti: Giordano Bruno,
Galileo Galilei, Charles Darwin… Su altri – soprattutto quelli
politici – è caduta poco a poco la polvere del revisionismo. Tra i
moderni, insieme alla chioma scomposta di Einstein, ci è rimasto il
barbone del padre dell’evoluzionismo. Eppure, Darwin non è stato
soltanto uno scienziato rivoluzionario, che ha fornito un contributo
decisivo alla comprensione del mondo biologico e all’idea che tutti
gli esseri umani condividano la stessa origine. E nemmeno è stato,
soltanto, un gentiluomo illuminato, convinto assertore
dell’estensione del suffragio e dell’abolizione dello schiavismo.
Se la lotta contro il traffico degli schiavi ispirò l’impegno
scientifico di Darwin (come un «fuoco sacro», come un imperativo
indomabile, di ordine etico), Darwin fu anche un figlio tipico del
suo tempo, che assumeva l’esistenza di «razze» come un fatto
scontato. Pensava che la lotta tra le «razze» fosse un corollario
implicito nella lotta per la sopravvivenza e accoglieva l’idea che
le «razze» occupino posti diversi, in una scala gerarchica della
specie viventi. Considerava inevitabile la scomparsa di intere
popolazioni indigene, di fronte all’avanzata degli europei e delle
loro stirpi. Del resto, accanto a chi ne ha fatto un eroe del
pensiero moderno, c’è chi lo ha dipinto come un apologeta
dell’egoismo, della sopraffazione sociale, della guerra e del
colonialismo.
I vantaggi della
bellezza
Ai tempi di Darwin, la
letteratura scientifica e l’evidenza portavano a considerare come
un fatto la differenza nell’aspetto esteriore degli esseri umani.
«Le razze degli uomini differiscono principalmente nel colore, nella
forma della testa e dei lineamenti (quindi nell’intelligenza? E che
tipi di intelligenze?); nella quantità e nel tipo di capelli e nella
forma delle gambe», scriveva Darwin nel 1838. Le differenze
fenotipiche tra i nativi dell’Africa, dell’Asia o delle «Indie
Occidentali» sembravano però contrastare con la tesi dei
monogenetisti, teorici di un’origine comune per tutti gli esseri
umani; bisognava spiegare quelle differenze. Darwin propose una
spiegazione di carattere estetico, tirando in ballo l’eros: nella
specie umana si sarebbero andati affermando certi standard locali di
bellezza; gli individui considerati più belli avrebbero acquisito un
vantaggio riproduttivo e – poco alla volta – trasmesso agli eredi
i loro tratti.
Schiavi per natura?
Ogni «razza» si sarebbe
formata intorno a un certo prototipo di bellezza. Nessun dubbio,
però, circa il fatto che le «razze» manifestassero differenti
gradi di sviluppo e che: «in un futuro non lontano, se misurato in
secoli, le razze civili dell’uomo certamente avranno sterminato e
sostituito in tutto il mondo le razze selvagge». Di più: negli
appunti di Darwin aleggia l’ipotesi che lo schiavismo possa essere
qualcosa di assolutamente esecrabile ma di naturale, perché potrebbe
configurarsi come un vantaggio, come il risultato di una
specializzazione adattativa. Con l’occhio disincantato del
naturalista, Darwin era anche convinto che la difesa dei deboli,
l’assistenza sanitaria, il sostegno degli «incapaci»
costituissero un rischio per le comunità. Appellandosi
all’esperienza degli allevatori di bestiame, ricordava che ogni
tentativo di contrastare la selezione naturale si traduceva in un
deterioramento della qualità della prole.
Ma l’idea che i tratti
apparenti degli esseri umani possano servire per tracciare differenze
nella specie era destituita di fondamento. Le caratteristiche
fenotipiche si distribuiscono infatti secondo assi di continuità,
lungo i quali è vano cercare cesure. Di certo, tra individui che
sono nati in continenti diversi (così come i loro ascendenti) i
tratti del viso e di altre parti del corpo possono essere
riconosciuti; ma c’è sempre una relazione di continuità, o di
stretta contiguità, nella genesi e nella distribuzione di queste
differenze.
Da quando si è capito
che i tratti fenotipici sono espressione di caratteristiche
genetiche, sia nell’agricoltura che nell’allevamento si sono
moltiplicate le ricerche, per classificare e (possibilmente)
governare questi caratteri. Nell’ambito dell’antropologia, si è
osservato che la distribuzione di particolari alleli (cioè la
frequenza statistica di particolari varianti, nella struttura del
genoma) è correlata con la localizzazione geografica degli individui
che li possiedono.
Però, anche in questo
caso, succede questo: piuttosto che presentarsi come raggruppamenti
discreti, omogenei al loro interno, le distribuzioni di questi alleli
variano con continuità; la relazione tra genotipo e fenotipo è
inoltra molto complessa (e, in grandissima parte, ancora ignota);
anche nei casi in cui la distribuzione di queste caratteristiche
risulta più netta, la differenza tra i tratti genetici all’interno
di una stessa popolazione può essere addirittura più ampia di
quella rilevata tra individui appartenenti a due popolazioni diverse.
In breve: il tentativo di argomentare a favore dell’esistenza di
sotto-specie umane differenti, invocando la genetica delle
popolazioni, non coglie nel segno.
Certamente, la nostra
evoluzione ci ha dotato di specifiche abilità nel riconoscere i
volti e nell’organizzare secondo prototipi gli enti dei quali è
popolato il nostro ambiente. Ma riusciamo a classificare come sedie,
bottiglie e martelli, se serve, anche oggetti che non corrispondono
al migliore modello. La nostra abilità nel classificare, e
nell’adeguarci al contesto, ci porta a tracciare differenze
convenzionali, che non hanno necessariamente una consistenza
ontologica. Qualcosa del genere, probabilmente, ci accade nei
confronti dei nostri simili, quando tendiamo a costruire prototipi di
popolazioni diverse: si tratta di una disposizione cognitiva, di un
aspetto della nostra inclinazione naturale, tesa a segmentare il
mondo secondo categorie di appartenenza.
Però, nel classificare
gli individui che appartengono alla nostra specie, incontriamo oggi
una nuova difficoltà: «razzista» è diventato un termine
dispregiativo, che connota negativamente. Per questo, nel
classificare gli esseri umani, facciamo ora ricorso a predicati che
non hanno a che fare con la natura biologica, ma piuttosto con la
lingua, le consuetudini, le credenze, le religioni, le tradizioni
artistiche. Non parliamo di «razza», ma di «comunità», di
«civilità», di «gruppo etnico», di «popolazione».
Il modello
Huntington
Mutuandola dalle analisi
di Fernand Braudel – uno dei massimi storici del Novecento – una
ventina di anni fa lo studioso di geopolitica Samuel Huntington ha
proposto una nuova classificazione dell’umanità, utilizzando il
concetto di civilità. Malgrado Huntington sia incline a
pensare che tra il concetto di «civilità» e quello di «razza»
esista una «notevole corrispondenza», ha lasciato cadere ogni
riferimento alle caratteristiche fisiche delle popolazioni: «una
civiltà rappresenta il più vasto raggruppamento culturale di uomini
ed il più ampio livello di identità culturale che l’uomo possa
raggiungere dopo quello che distingue gli esseri umani dalle altre
specie. Essa viene definita sia da elementi oggettivi comuni, quali
la lingua, la storia, la religione, i costumi e le istituzioni, sia
dal processo soggettivo di autoidentificazione dei popoli».
Le ultime sei parole sono
particolarmenti importanti: la spinta alla radicalizzazione delle
diverse «civilità», foriera di inevitabili scontri, sarebbe legata
alla ricerca di identità e di appartenenza, che ogni essere umano
naturalmente persegue. Questo processo sarebbe esaltato dalla natura
stessa della condizione contemporanea, così secolarizzata,
impersonale, frammentatrice di ideologie, così scettica rispetto ai
valori e alla condivisione degli scopi. La distribuzione ineguale
delle ricchezze fungerebbe da stimolo materiale per una reazione
identitaria, per una affannosa ricerca di nuove appartenenze.
Così come ai tempi di
Darwin le apparenti differenze razziali sembravano fornire uno schema
adeguato per dar conto della fenomenologia, così (a una prima
lettura) può sembrare che l’idea di uno «scontro tra civiltà»
sia un modello efficace, per le tendenze geopolitiche in atto. In
particolare, sembra corrispondere al vero che nuove credenze di
massa, nuove ideologie, traggano molto alimento dai conflitti tra le
popolazioni, che hanno come oggetto la ripartizione delle risorse e
che assumono come aspetto identitario la differenza etnica, religiosa
o ideologica.
La controproposta
di Sen
La critica militante di
questo modello (la critica delle ideologie, e il disvelamento del
nocciolo materiale, e razionale, dei conflitti) è all’ordine del
giorno; ma in termini diversi – si deve sperare – rispetto al
fatalismo molto freddo con il quale il giovane Darwin commentava il
genocidio degli indios, nelle pampas argentine del XIX secolo: «se
questa guerra sarà coronata da successo, e cioè se tutti gli
indiani saranno massacrati, una grandissima estensione di terra verrà
acquisita per l’allevamento del bestiame; e le valli produrranno
molto mais».
Amartya Sen, impegnato a
confutare la tesi di un immanente (e ineluttabile) «scontro di
civilità», ha utilizzato una strategia molto simile a quella messa
in campo dai genetisti, per demolire il concetto di «razza». Così
come i tratti del genotipo non identificano classi di appartenenza
chiuse e omogenee al loro interno, così Sen argomenta che i
predicati utilizzati da Huntington non sono quelli più dirimenti e
specifici, per classificare le popolazioni del mondo contemporaneo e
per raccogliere gli individui sotto particolari gruppi. Per Sen, ogni
individuo fa parte di una pluralità di gruppi (di genere, o legati
alla classe sociale, alla professione, ai gusti, all’educazione, al
tipo psicologico), che rendono vacua, grossolana e molto arcaica la
suddivisione per «civilità». Né vale il fatto che i predicati
presi in considerazione da Huntington (per esempio: l’appartenenza
religiosa) debbano implicare necessariamente conflitti: l’India,
con i suoi 145 milioni di musulmani, rende molto opinabile la
classificazione di Huntington, che riconduce tutta la comunità
indiana alla «civilità induista».
La posta in gioco
Al militante politico
resta però qualche dubbio. Così come fu necessario un secolo almeno
di blocchi navali e di guerre, per ottenere l’abolizione formale
dello schiavismo (e ancora di più, per confutare i pregiudizi
«scientifici» e culturali, intorno al razzismo), è possibile che
il tema della contrapposizione etnica, dello «scontro tra civilità»
richieda qualcosa di più di una confutazione teorica, centrata
sull’idea aristotelica che «l’essere si può dire in molti modi»
e sull’assunto (relativistico) secondo il quale ogni tassonomia è
rivedibile.
Non si tratta di
rivendicare il fatto che, per ogni insieme di individui e di oggetti,
le classificazioni in astratto possibili non conoscono limiti. Si
tratta di capire quali criteri di identità e di appartenenza possano
prevalere nell’umanità negli anni che vengono, per quali motivi, e
quali criteri sarebbe opportuno invece proporre.
“il manifesto”, 12
febbraio 2012
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