Non c’è un solo
Mare Nostrum: ogni continente ha il suo, dal Golfo del Messico al
bacino sino-malese. E in questi contesti, così fitti di relazioni,
si innescano dinamiche geopolitiche ed economiche che anticipano le
logiche della globalizzazione.
È un fatto a suo modo
consolatorio che il vecchio gioco delle capitali, in cui per molti si
riassume l’intero sapere relativo alla geografia, abbia ancora
senso, avvii ancora a comprendere come il mondo funziona. A
differenza di quanto accade nell’Europa settentrionale (si pensi a
Londra, Stoccolma, Helsinki, Oslo, Riga tra le altre) nel nostro
Mediterraneo i capoluoghi nazionali non sono quasi mai sul mare, ad
eccezione di Algeri, Beirut, Tunisi e Tripoli, promosse come esito
della loro passata funzione coloniale.
La logica territoriale
mediterranea obbedisce evidentemente a un modello diverso se non
opposto rispetto a quello che vale per il resto dei continenti. E
proprio tale contrasto apre uno spiraglio che consente di gettare uno
sguardo sulla natura della globalizzazione. Va subito precisato:
quasi tutti i continenti (ad eccezione almeno per il momento di
quelli polari) hanno il proprio Mediterraneo, una grande ingolfatura
oceanica che agisce da sinapsi tra le grandi masse emerse, un vero e
proprio insieme di «pianure liquide che comunicano per via di porte
più o meno larghe», come Fernand Braudel definiva il Mare Nostrum
dei Romani, il Mediterraneo euro-africano. Ma esiste anche il
«Mediterraneo americano», costituito dal golfo del messico e dal
mar dei caraibi, così come esiste un «Mediterraneo sino-malese»
composto dal Mar Cinese meridionale e orientale e dal Mar Giallo e
dai mari indonesiani e filippini.
Nel complesso si tratta
di una vera e propria cintura estesa a cavallo del Tropico del
Cancro, tripartita in corridoi di circa 4 mila chilometri di
lunghezza e di circa 1.200 chilometri in corrispondenza della loro
massima larghezza. E le cui analogie dal punto di vista della rendita
di posizione territoriale a scala planetaria, del ruolo economico e
della struttura politica risultano, da un continente all’altro,
troppo coerenti e puntuali per essere casuali.
Facciamo l’esempio del
nostro Mediterraneo, del nostro Paese e del nostro continente. Nel
1957 tre processi presero all’unisono avvio: in Europa nacque la
Comunità Economica, in Italia fu varata la legge 634 per
l’industrializzazione del Mezzogiorno e Cosa Nostra decise di fare
della Sicilia la base dello smercio dell’eroina in Europa. Tre atti
di tre differenti soggetti in varia misura tra loro antagonisti e che
operavano a differente scala, ma determinati dall’identica
necessità: far fronte alla nuova articolazione fondata
sull’imbricazione dello spazio economico nazionale con quello
internazionale e mondiale.
L’avvento della Cee
segnò l’avvio del coordinamento delle politiche economiche statali
all’interno di un quadro sopranazionale. L’industrializzazione
del Meridione, che avrebbe dovuto favorire le piccole e medie
imprese, finì invece per generare la proliferazione dei grandi
impianti a ciclo integrato dell’industria di base, attratti dalla
possibilità di superprofitti dovuti al basso costo della manodopera,
ma programmaticamente privi di qualsiasi reale connessione con le
economie e le culture locali, e invece saldamente inseriti nello
specifico spazio multinazionale che allora nasceva. Al contrario,
proprio su tale saldatura si basò il pervasivo e capillare carattere
dell’economia illegale, in grado sin da allora di mantenere il
contatto tra i nuovi flussi (prima di natura materiale e poi
immateriale) e l’ambito della riproduzione della vita sociale.
In termini più generali:
furono proprio i portatori delle logiche extrastatali a cogliere, in
anticipo sul loro competitore istituzionale, la natura dello spazio
informazionale — come oggi si usa definire l’ambito che risulta
dall’applicazione della telematica e della cibernetica — e a
modellare le proprie strategie in riferimento ad esso. E ciò perché
l’avvento di tale spazio, mettendo in crisi l’ordinamento
territoriale moderno, reintegrò la preminenza dell’archetipico
assetto mediterraneo, che altri e non lo Stato ebbero la capacità di
mettere a frutto. Dall’installazione di raffinerie e acciaierie in
Sicilia, Puglia, Campania e Sardegna non derivò nessuno sviluppo
indotto, come invece si attendeva: se avesse incrementato la domanda
di forza lavoro, esso avrebbe automaticamente cancellato, in forza
del corrispondente aumento dei salari, ogni convenienza delle
multinazionali.
Così, mentre lo Stato
assecondava la costruzione di quelle che ben presto vennero definite
«cattedrali nel deserto», altri soggetti economici approntavano una
geometria variabile di produzione e consumo, lavoro e capitale,
management ed informazione, attraverso una rete in grado di cambiare
forma celermente e senza posa, e soprattutto fondata sulla messa in
valore delle specifiche qualità del contesto. Cioè del luogo: la
fondamentale cellula fisica e territoriale, vale a dire politica ed
economica, di ogni Mediterraneo.
Al contrario dei soggetti
multinazionali o portatori dell’economia illegale o informale che
si voglia dire, i quali da tempo pensano e agiscono soprattutto in
maniera intensiva, cioè per luoghi dunque per differenze, lo Stato è
per natura costretto invece a pensare e comportarsi in termini
estensivi cioè spaziali, vale a dire in senso opposto a quello dei
suoi concorrenti, verso i quali alla fine non resta, paradossalmente,
che cedere più o meno volentieri il passo. Quel che infatti accomuna
tutti i Mediterranei è la loro funzione di «zona franca», di luogo
dello scarto dalla norma, a partire da quella relativa ai regolamenti
fiscali e doganali, spesso in condizioni di vera e propria
extraterritorialità molto vantaggiosa per le industrie che vi si
insediano. Ma tali «territori dell’eccezione» assolvono oltre
quello industriale ben altri compiti: supportano i traffici illegali,
di armi oltre che di droga; accolgono esercizi tollerati perché
limitati come i casinò e i paradisi fiscali; sostengono strategie di
controllo attraverso la presenza di basi militari, teste di ponte,
servitù d’uso; funzionano da punta avanzata nell’ambito delle
strategie di marketing territoriale, attirando nuovi clienti
all’interno dell’ambito (deregolato prima ancora che regolato) di
pertinenza statale. Ed è proprio in tale congiuntura che
l’opposizione tra la logica territoriale del diaframma mediterraneo
e l’assetto continentale torna oggi a manifestarsi, a tutto
vantaggio della prima.
Quel che sui continenti
appare come l’incipiente effetto della pressione della
globalizzazione sulla sintassi statale, nei Paesi mediterranei
risulta invece nativo e originario. Ad esempio la progressiva
diminuzione della taglia degli Stati stessi: si pensi all’esito del
crollo del blocco comunista. Oppure la crescente natura alveolare
della loro grammatica interna: si pensi alle spinte autonomistiche e
indipendentistiche in Europa, Africa e Asia, da riferirsi alla
tardiva e imperfetta centralizzazione degli Stati. Si aggiunga la
generale trasformazione in senso transazionale, se non immateriale,
di tutte le economie. Oppure il progressivo riconoscimento, anch’esso
generale, del valore delle specifiche, locali capacità di
manipolazione simbolica a scapito delle attività materialmente
produttive.
Narra Polibio che, di
ritorno da Roma, l’ambasciatore di Rodi terminò di informare i
propri concittadini della mancata concessione a importare legname
dalla Macedonia con queste parole: «È la nostra rovina; ma possiamo
ancora conservare la nostra fama di essere il popolo più civile di
tutto il Mediterraneo». L’attuale globalizzazione sembra insomma
assumere, per un verso decisivo, le forme e le movenze di una specie
di mediterraneizzazione, di Un’avanzata del modello territoriale
mediterraneo come contraccolpo alla crisi dell’architettura statale
del mondo moderno, sempre più sorretto da una specie di «antimondo»
fin qui concepito e tollerato come semplice retrobottega.
Nient’altro che
un’ipotesi per cercare di capire per tempo l’ibrido nuovo che
avanza: la «selvaggia e nuova terra» cui, come Alice nel Paese
delle Meraviglie, noi stessi crederemo «soltanto a metà» quel che
vedremo.
“La lettura-Corriere
della sera”, 22 maggio 2016
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