Un Del Buono in forma smagliante per un articolo ricco di memorie, di aneddoti, di trovate, tutto da leggere. (S.L.L.)
Forse il pubblico non si
rende ben conto dell'importanza artistica d'una buona ''spalla'' -
assicurano Dino Falconi e Angelo Frattini in Guida alla rivista e
all'operetta (Accademia, 1953) -, ma chi abbia intima
dimestichezza con la ribalta sa i prodigi di affiatamento, i miracoli
di tempismo, il preciso umorismo e la sicurezza dì scena che
occorrono per adempiere utilmente ed artisticamente a questo non
facile compito. Un passo di più e la "buona spalla" può
diventare un buon comico. E se quel passo non viene a volte compiuto
è forse nella tema di non trovare per se stessi una ''spalla''
altrettanto brava. Il nostro palcoscenico di rivista ne conta alcune
che sono veri maestri del genere. E per non sapere in coscienza a chi
dare la palma del primato adotteremo, nel ricordare le tre principali
"spalle" del teatro di rivista italiano, il comodo ordine
alfabetico...».
L'ordine alfabetico usato
per le «spalle» opportunamente concordava con l'ordine qualitativo
dei tre comici che le detenevano. Mario Castellani apparteneva a Sua
Altezza Reale Antonio de Curtis Gagliardi Griffo Focas Comneno di
Bisanzio, detto Totò; Carlo Rizzo apparteneva a Macario ed Enzo
Turco apparteneva a Nino Taranto. Il romano Castellani aveva
incontrato per la prima volta Totò nel 1927, erano stati i due
comici di una stessa rivista, poi erano stati divisi dalla crisi del
teatro di varietà e s'erano rimessi insieme solo nel 1941.
Per Totò Castellani si
moltiplicò, fu il proprietario del teatro, il maggiordomo, il
bandito Cast, l'allenatore, l'imbroglione, Za la Mortadelle,
Asdrubale Stinchi, Stanis, il comandante dei ribelli, il colonnello
Bertrand de Tassiny, l'onorevole Trombetta, il ragionier Carlini, il
pubblico ministero, il dottore, l'onorevole Coccheletti, il domatore
Goffredo Barozzoli, un industriale, il signor Cristaldi, Cri-Cri il
marito della dirimpettaia, Mezzacapa, uno dei banditi, Alì
l'aiutante, Amilcare Pasquetta, l'ispettore Scalarini, l'altro
fratello, il commendatore Filippo Iancetti, un ciabattino, il
brigadiere, il chirurgo cranico, una guardia carceraria, un
ufficiale, il direttore dell'orfanotrofio, l'agente americano, il
signore della mutua e altri.
Le altre «spalle»
latravano cercando di opporsi almeno con violenza vocale alle
stolidità del comico, Castellani mise in scena un mite stupore in
grado di provocare maggiori assurdità, strafalcioni, aggressività
del tiranno, con accuratamente tardivi conati di medicarne il
delirio, sino all'esplosione completa. Rizzo, nipote del celebre
attore d'operetta Carlo Lombardo, figlio d'arte come il fratello e la
sorella, invece, si provava sempre ad aver ragione scaricando una
cospicua dose di buon senso sulle astrazioni lunari, le imbarazzanti
timidezze e le soluzioni inaccettabili di Macario. Parlava, parlava,
parlava, ma quando si illudeva di aver finalmente ridotto a più miti
consigli l'interlocutore veniva vulnerato da una scemenza meno
accettabile di costui che gli faceva perdere ogni controllo. Turco
era già un comico abbastanza arrivato, ma, a un certo punto, aveva
fatto i conti e aveva preferito entrare in società con Taranto,
napoletano lui e napoletano l'altro, una perfetta macchina di buon
umore partenopeo, con ogni tanto virtuosismi preziosi anche alle più
rozze platee. Tre coppie irresistibili, si potrebbero dire
serenamente insuperabili.
Lo possiamo dire
senz'altro. Nessuno è in grado d'impedircelo. Ma i dubbi sono pronti
a consigliare una certa prudenza. E Billi e Riva? La coppia Billi e
Riva si formò nel dopoguerra. Un agente milanese in angustie per
salvare una serata a Monza aveva contattato il giovane presentatore
Mario Riva, al secolo Mario Bonavolontà, e gli aveva detto: «Solo
tu mi puoi salvare. Ho una serata a Monza, ma una compagnia
deboluccia. Mi serve uno con la tua personalità per quadrare le
cose». Ma, quando Riva era arrivato a Monza con la sua compagna
Diana Dei si era trovato davanti solo Riccardo Billi con la moglie
Liana, e da lui aveva appreso che l'intraprendente agente milanese
gli aveva fatto lo stesso discorso che aveva fatto a lui. Billi
appariva molto vecchio ed era in giro dai tempi della famosa
soubrette Lydia Johnson. Non si sarebbe detto in grado di dare un
gran contributo al salvataggio della serata. Ma gli bastò calcare il
palcoscenico per recuperare un'energia quasi selvaggia.
In Garinei e
Giovannini presentano: Quarant'anni di teatro musicale all'italiana,
a cura di Lello Garinei e Marco Giovannini (Rizzoli, 1985) si legge
una significativa testimonianza di Diana Dei: «Billi, fuori dalla
scena, poteva sembrare assente, abulico, ma in palcoscenico si
accendeva come una lampadina. Mario, invece, era in palcoscenico
esattamente quello che era nella vita. Poteva dire una battuta o
leggere “Il Messaggero”, l'effetto comico era identico. Garinei e
Giovannini glielo ripetevano sempre: “Mettiti pure i vestiti di
scena, camuffati come ti pare, ma ricordati di essere sempre te
stesso”...». Comunque fosse andata la serata a Monza, si misero
insieme. «Riccardo Billi viene dalla paziente "gavetta"
dell'avanspettacolo - scrivono Falconi e Frattini -, Mario Riva dalla
falange dei "presentatori". Un bel giorno questi due
s’incontrano e la loro unione - che ricorda quella di alcune
sostanze chimiche, ciascuna delle quali, per proprio conto, è
abbastanza innocua, ma mescolata ad altra forma un composto esplosivo
- fa deflagrare un clamoroso successo. Questo successo è La
Bisarca cui seguono Alta tensione e I fanatici.
Ormai la "ditta" è affermata: la sua comicità vince di
prepotenza ed è, infatti, una comicità prepotente. Non c'è modo di
resisterle: fate conto di giocare a poker con un avversario - anzi,
due - che abbia costantemente in mano quattro assi. Billi è un
parodista di prima forza: la sua imitazione della Magnani ha fatto
epoca. Riva è, pirandellianamente, uno, nessuno e centomila; le sue
battute rapidissime hanno la persistenza e la suggestività del
tam-tam della foresta: come ne sentite i primi colpi, siete già
disposti ad arrendervi, sapete che la vostra resa è inevitabile. In
Billi e Riva c'è tutta Roma: la corrosività del Belli, la
cordialità di Pascarella, l'ironia di Trilussa. Straordinariamente
divertenti, con tutta l'aria di chi sa di esserlo e fa il possibile
per non darlo a vedere: un'immodestia che abbassa gli occhi e
arrossisce lievemente, come una signorina di famiglia (del secolo
scorso). Una cosa è certa: che la loro è una comicità tutta
godibile; quando avete finito di saziarvene, vi avvedete che della
lauta imbandigione non è avanzata neppure ima briciola...». Tutto
giusto, tranne che Riccardo Billi non era di Roma ma di Siena.
La Bisarca,
proposta di una seconda Arca di Noè, con rassegna di buoni e
cattivi, copione di Garinei e Giovannini, fu dapprima il grande
successo radiofonico con cui nel 1950 Billi e Riva entrarono in Rai e
dai microfoni della Rai conquistarono l'Italia. Quando Garinei e
Giovannini vollero presentare la storia del secondo diluvio e
dell'Arca bis sul palcoscenico del Sistina, per l'esattezza al teatro
Palazzo Sistina, come era definito, Billi e Riva si spaventarono. Il
teatro Palazzo Sistina era un teatro enorme, e loro erano abituati al
piccolo Bernini in cui avevano raggiunto il miglior funzionamento
come coppia, Mario Riva come spalla smaniosa e intraprendente e
Riccardo Billi come comico esperto capace di tutto per arricchire lo
spettacolo. Sinché si esibivano per radio, andava tutto liscio, la
platea, anche se molto diffusa, non era visibile, ogni possibile
contestazione veniva differita. Foschi presagi aggravarono l'ansia
degli interpreti. Alla vigilia del debutto la catastrofe fu data per
ineluttabile. Il suggeritore De Pascale era quasi in lacrime. Si era
perduto l'ultimo copione della rivista. Impossibile andare in scena.
«Distrazione, dimenticanza o, addirittura, furto?», raccontano
Lello Garinei e Marco Giovannini con la lieve affettuosa ironia di
nipote e figlio. «Dopo ricerche vane, un attore si ricordò che alle
quattro di notte dopo la prova generale il copione era rimasto sulla
passerella. Confessò poi una donna delle pulizie di esserselo
portato a casa per avere qualcosa da leggere quella notte... G &
G trovarono subito la spiegazione ovvia di tutta la faccenda, la
colpevole era Alba Arnova, che qualche giorno prima aveva osato
presentarsi alle prove con un golfino viola. Glielo avevano strappato
di dosso, G & G, mandando subito un fattorino a comprargliene uno
nuovo di un fiammante e innocuo rosso, ma ormai la frittata era
fatta. Prima o poi, avevano preventivato, sarebbe sicuramente
capitato qualche guaio...».
Il debutto, però, fu
trionfale. Incasso 2.267.188 lire e passerelle a non finire. Alba
Fossati, figlia di un lombardo e di una piacentina emigrata in
Argentina, primo nome d'arte Ars Nova e poi più sinteticamente
Arnova, ex prima ballerina classica del teatro Colon di Buenos Aires,
arrivata in tournée in Italia nel 1948 e restia al ritorno
oltreoceano, dette il meglio di sé per il successo de La Bisarca
al teatro Palazzo Sistina come Billi e Riva che passarono da
un'emozione all'altra, imparando quanto possano esaltare una grande
platea, e una grande occasione. Un'occasione addirittura storica. Per
la prima volta nella nuova Italia convertitasi alla democrazia un
presidente del Consiglio assisteva a una rivista non proprio
conformista. Alcide De Gasperi, durante il convegno dei federalisti
tenuto al teatro Palazzo Sistina la mattina del 4 novembre si era
incuriosito vedendo i manifesti che annunciavano lo spettacolo, aveva
chiesto informazioni e aveva deciso che gli sarebbe piaciuto
assistervi con la moglie. Gli era stato fatto notare che si poteva
prevedere, anzi si era sicuri, che la rivista non sarebbe stata
tenera con il governo, e non sarebbero mancate le frecciate velenose.
La risposta era stata da statista lungimirante e preparato alla propria sorte di
bersaglio. «Non certo per questo mi farò cattivo sangue. La lettura
quotidiana della stampa mi ha talmente allenato che ora, quando si
parla di De Gasperi, mi fa l'impressione che si tratti di una persona
differente da me...».
Billi e Riva non si mostrarono teneri con il
governo, non si lasciarono intimidire dalla presenza del trentino
prestato all'Italia, ma, alla fine, dopo l'ennesima battuta
antigovemativa, attraversarono il palcoscenico per porgere un grande
fascio di rose rosse alla signora Francesca. Un omaggio come quelli
che si tributavano alla Wanda Osiris. Non diversamente dai comici,
Alcide De Gasperi aveva pronta la sua battuta come se avessero un
comune copione a disposizione. «Cara - disse chinandosi verso la
moglie che scompariva dietro alle rose rosse -, attenta alle
spine...».
Un grande successo può
essere interpretato in vari modi. Dipende dalle circostanze e dal
punto di vista di chi guarda. In una “Gazzetta del Popolo” di
quei giorni ci imbattiamo nel commento di Leo Longanesi, intelletto
ribelle alle convinzioni dei più, alle prese con La Bisarca
alla presentazione al Teatro Manzoni di Milano: «Dal palco, dunque,
io non guardavo più il palcoscenico, ma il pubblico, e pensavo:
queste mille persone che hanno speso a testa duemila lire ridono
delle stesse cose per cui ridono i poveri fantaccini e le povere
serve nei teatri di periferia; in questa platea siedono le mille
persone che guidano Milano, le mille persone che possiedono la 1400,
le mille persone che, per un verso o per l'altro, formano il fior
fiore della più solida città italiana; ma cosa le distingue dai
poveri fantaccini e dalle povere serve? Esse ridono allo stesso modo
delle stesse cose. Ma i fantaccini e le serve, quel diritto di
ridere, se lo guadagnano con il loro candore, con la loro ignoranza,
con la loro povertà. I mille spettatori che osservavo dal mio palco,
al contrario, non erano affatto ingenui né poveri né serbavano
amore a quella virtù e a quelle regole che sul palcoscenico venivano
derise. Essi ridevano perché erano persone volgari; essi erano
plebei arricchiti, divenuti scettici grazie al denaro loro, ma
deridevano se stessi, senza saperlo. Le signore e le signorine, in
pelliccia di martora, con la bocca alla Crawford, con le unghie
laccate, coi sandali alla schiava, con il tampax, coi pesanti
grappoli di medaglie d'oro al polso, con l'aria ibseniana, erano più
plebee delle serve loro. Non sono moralista, non sono democristiano
né sono socialista, ma quelle mille persone distinte che vedevo dal
mio palco, io le odiavo...».
Non basta dire: «Non
sono moralista» per non esserlo. L'articolo di Leo Longanesi,
nonostante i suoi dinieghi, è l'articolo di un moralista. E i
moralisti, si sa, non sanno mai esser totalmente in buona fede. Più
alzano la voce a criticare gli altri, più attingono all'immoralismo
dell'ipocrisia. A ogni modo, questa è una delle prime descrizioni
efficaci del pubblico del dopoguerra. Il pubblico che dopo i primi
passi della televisione cominciava a imporre i suoi gusti. Anche la
coppia Billi e Riva, regina degli spettacoli, subì a un certo punto
l'influenza della televisione. Riccardo Billi, che poi non aveva
tutti quegli anni più di Mario Riva, essendo nato nel 1906 mentre
Mariuccio Bonavolontà era nato nel 1913, fu subito diffidente nei
riguardi del nuovo mezzo di comunicazione. Si lasciò tentare ad
apparire con Riva in «Un, due, tre» varietà musicale di Scarnicci
e Tarabusi, dopo l'esordio di Mario Carotenuto che l'aveva presentato
dal 20 gennaio al 24 marzo 1954. Billi e Riva presentarono il
programma dal 24 marzo al 28 luglio. Ma Riccardo Billi non cambiò
opinione, non era più cosa per lui. Fu contento di abbandonar tutto
a Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello destinati a reggere per sei anni
con una serie di successi e incidenti di percorso che resero più
ricca la loro programmatica presa in giro della televisione stessa.
La coppia si scisse, perché Mario Riva aveva abbracciato pienamente
la carriera televisiva, diventando uno dei personaggi principali e
conquistando una notorietà assoluta. Billi e Riva si esibirono
insieme soprattutto a «Carosello» per pubblicità e anche nei film
dell'epoca che avevano per argomento la televisione. Ma la carriera
di Mario Riva merita ancora attenzione, sebbene gli restassero appena
pochi anni da vivere.
Tuttolibri – La Stampa,
6 febbraio 1996
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