Non so, non posso, non
riesco ad abituarmi all’idea che non ci sia più. Non troppi mesi
or sono era venuto a mancare a Parigi un suo grande amico, il
medievista Jacques Le Goff. «È davvero finita un’epoca», ebbe a
dire lui al riguardo. La sua stessa morte ce l’ha confermato. Per
me che sono più o meno un decennio più giovane di lui, che sono
cresciuto intellettualmente a colpi di Diario minimo e di
“Elogio di Franti”, il fatto che lui ci abbia lasciato è la
riprova che si è ormai chiuso il Grande Novecento. Quel tempo ch’è
stato anche mio: il tempo di Sartre, di Caillois, di Derrida, di
Salvador Dalí, di Woody Allen. Il secolo splendido e terribile che
ha saputo mettere accanto – anche se magari non insieme – Stalin
e Teresa di Calcutta, Hitler e Albert Schweitzer, Khomeini e David
Bowie. Umberto Eco fu una rivelazione per noialtri ch’eravamo poco
più che ventenni mezzo secolo fa, quando lui era poco più che
trentenne e impazzava – ancora senza barba e con molti chilogrammi
di meno – dalle colonne dell’“ Espresso”. Una pattuglia di
giovani che stavano in equilibrio parcheggiati tra università e Rai
(lui stesso, Eugenio Battisti, Furio Combo e pochi altri) riuscì a
scombinare le carte di un gioco politico e culturale stantìo, si
aprì e ci aprì a un’Europa intellettuale impensabile e per molti
versi scandalosa, ci mostrò verso quali funambolici orizzonti
potevano giungere la semiologia collegata con l’estetica e con la
politica. Poi, sulla soglia del mezzo secolo, quel divo
dell’Accademia, della carta stampata e del piccolo schermo ci
sorprese e ci sedusse con un “giallo medievistico” che grondava
filologia ed e- rudizione combinando la storia della filosofia
medievale e dei movimenti ereticali con la suspence alla Sherlock
Holmes («Elementare, Adso!»): ci trasportò tutti in un’abbazia
benedettina del Trecento e nella sua labirintica biblioteca, obbligò
un mostro sacro del cinema come Sean Connery a vestire gli umili
panni color cenere di uno scettico e deluso francescano
ex-inquisitore che ricordava tanto Guglielmo d’Ockham (ma che era
“di Baskerville”, come il mastino di Conan Doyle…), disegnò un
capolavoro di ritratto del mistico reazionario Jorge da Burgos
prestandogli i tratti e i pensieri del grande odiato-amato Jorge Luís
Borges. Dopo Il nome della rosa, per tutti noi il Medioevo non
fu più lo stesso. Confesso che quello non è il mio romanzo echiano
preferito: per molte ragioni, preferisco Il pendolo di Foucault.
Eppure, quel racconto di frati inquisitori-investigatori e di eretici
spaesati e bizzarri ha fatto epoca, come Il Signore degli Anelli
in letteratura e come Il settimo sigillo e L’Armata
Brancaleone al cinema. Eco non ha mai cessato di stupirci,
dall’invenzione del “suo” dipartimento nell’Università di
Bologna (il Dams: Arte-Musica-Spettacolo) fino agli appuntamenti
settimanali della “Bustina di Minerva” ch’eravamo in tanti a
non voler perdere nemmeno per una sola puntata. Spesso ci pettinava
contropelo, ci scandalizzava; anche sul piano umano sapeva essere
simpatico e divertentissimo eppure a tratti – quando voleva: o
quando non poteva fare altrimenti – si trasformava per diventar
sprezzante, altezzoso, antipatico, insopportabile. Anche il suo
rapporto con Dio era sopra le righe: cattolico di ferro, militante di
Azione Cattolica di un rigore piemontese che ricordava Giovanni Bosco
e Pier Giorgio Frassati, diceva che una mattina si era svegliato
scoprendo che Dio non esisteva e che Tutto era Nulla. Eppure
continuava a studiare il “suo” Tommaso d’Aquino, all’estetica
del quale ha dedicato studi (recentemente ripubblicati) che sono
diventati dei veri classici e che sono piaciuti a Étienne Gilson, a
Rosario Assunto, a Massimo Cacciari. Ci trovammo mesi fa, in un lungo
tranquillo dopocena con altri amici, attorno a una tavola parigina.
Non dissi nulla, ma lo trovai smagrito, un po’ stanco. Forse erano
i primi segni della malattia che ce lo ha rapito. Scherzavamo sul suo
giovanile cattolicesimo e sul mio pertinace “clericalismo”. Io
gli davo dell’“apostata”, lui a sua volta dava a me del
“superstizioso”. Poi mi disse: «E comunque io ti fregherò:
andrò in paradiso prima di te»; «Non ti faranno entrare»; «Lo
dici tu: Dio lo conosco, abbiamo letto gli stessi libri (era una sua
vecchia battuta: alludeva appunto a Gilson, a Marrou, a De Lubac…);
e poi sono amico di san Tommaso…»; «…ti ci sei arruffianato…
»; «…è quello che ti dicevo: li conosco, sono vecchi amici: vuoi
che mi lascino fuori? Ma non temere: ti aspetterò sul portone, anche
se sei un vecchio fascista ». Ci conto, Umberto. Se mai arriverò su
quella soglia, sbircerò dal portone socchiuso e aspetterò di
vedervi, tu e Tommaso, sorridenti e corpulenti entrambi, lui nel suo
severo abito bianco-nero e tu nel saio sbrindellato di Guglielmo di
Baskerville. Spero che direte davvero per me una parola buona al
Portinaio.
“Avvenire”, 21
febbraio 2016
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