Era un aneddoto che
Umberto Eco raccontava volentieri, perché riguardava il Medioevo,
sua grande passione, e anche perché rivelava qualcosa del suo modo
di vedere il mondo, di concepire la scrittura. «Mia moglie Renate –
diceva – mi rimproverava di non guardare bene le scintille quando
accendevamo in campagna dei falò di foglie secche; poi ha letto la
mia descrizione dell’incendio nel Nome della rosa e mi ha
detto: “Allora le scintille le guardavi!”. E io ho risposto: “No,
ma so come poteva vederle un monaco medievale”». Un’immaginazione
di secondo grado, che veniva sempre dopo qualcosa, annunciando e in
qualche modo completando la fatica dell’erudizione.
Anche quando finiscono
(Eco è morto venerdì notte nella sua casa di Milano, all’età di
84 anni, per le conseguenze di un cancro al pancreas), le storie
vanno raccontate dall’inizio. Nel caso di Eco, però, il dato
anagrafico è indispensabile, ma non sufficiente. Nascita ad
Alessandria, il 5 gennaio 1932, da una famiglia di commercianti.
Studi al liceo classico locale – il “Giovanni Plana”, al quale
rimarrà legatissimo – e militanza nel ramo giovanile dell’Azione
Cattolica, di cui diventa uno dei dirigenti nazionali. Il 1954,
l’anno in cui si laurea in filosofia all’Università di Torino, è
anche quello in cui lascia l’incarico, per valutazioni che al
momento riguardano principalmente le scelte politiche dell’allora
presidente Luigi Gedda. In realtà è l’inizio di un travaglio
destinato a durare fino al 1962 e al termine del quale Eco non è più
credente.
L’inizio vero della
storia, forse, sta proprio qui, in questi otto anni di passione
(Sette anni di desiderio è, com’è noto, il titolo di una
sua raccolta di scritti giornalistici apparsa nel 1983) che stanno
fra la discussione della tesi su Il problema estetico in
Tommaso d’Aquino, relatore Luigi Pareyson, e la pubblicazione di
Opera aperta, il saggio nel quale il metodo dell’Aquinate
viene messo a servizio delle avanguardie novecentesche. «La perdita
della fede è qualcosa di difficilmente ponderabile – ammetteva Eco
in un’intervista ad “Avvenire” del 1994 –. Si potrebbe anche
tentare di offrire, provocatoriamente, una teologia alternativa, come
a dire: non sono io che ho smesso di credere in Dio, è Dio che ha
smesso di credere in me. Resta il fatto che allontanarsi da una
religione rivelata non significa abbandonare la dimensione religiosa,
la dimensione della domanda».
All’inizio degli anni
Sessanta Eco non è solo uno studioso. Appena laureato, entra in Rai
nel gruppo dei cosiddetti “corsari”, i giovani intellettuali che
hanno partecipato ai corsi di selezione voluti dal direttore generale
Filiberto Guala. Con lui ci sono, tra gli altri, Gianni Vattimo,
Furio Colombo (che è già stato suo compagno d’avventura nella
redazione del “Vittorioso”, il settimanale per ragazzi promosso
dall’Azione Cattolica), il critico letterario e futuro direttore di
Rai 3 Angelo Guglielmi. È un periodo di straordinaria vitalità
culturale. Eco lavora a Milano, nella sede Rai di corso Sempione dove
si trova anche il leggendario Studio di Fonologia musicale diretto
dal compositore Luciano Berio. «Ci passavano Maderna, Boulez,
Pousseur, Stockhausen – ricordava –. La sera, a casa di Berio,
mangiavamo la cucina armena di Cathy Berberian e si leggeva Joyce».
Prende corpo quella che
Eco stesso, in uno dei suoi interventi di fiancheggiamento alla
neoavangaurdia del Gruppo 63, definirà «la generazione di Nettuno»:
se i padri, i grandi innovatori affacciatisi all’alba del XX
secolo, appartenevano all’operosa stirpe del fabbro Vulcano, i
figli e i nipoti sono palombari dell’immaginazione, il loro
lavorio, «lento e sotterraneo, emerge solo dopo lunghi tratti». Non
accendono il fuoco e neppure lo contemplano, se non attraverso lo
schermo della citazione appropriata, del riferimento funambolico. La
mescolanza di cultura alta e cultura bassa, si ripete oggi. In
realtà, è la cultura alta che si esercita sulla materia vile del
pop, dei media, delle canzonette, della tv in particolare. Un
contributo sotto ogni aspetto epocale come Fenomenologia di Mike
Bongiorno (apparso in origine nel 1961 e raccolto due anni più
tardi nel fortunatissimo Diario minimo) è espressione di
questa complessità. Eco si maschera da entomologo della
comunicazione, ma le sue osservazioni sono sostenute da una
conoscenza diretta, artigianale, del mezzo televisivo. A differenza
dell’amico Gianfranco Bettetini, non pratica la regia dei
programmi, ma non per questo ne ignora le malizie. L’impegno in Rai
si svolge in parallelo alla marcia di avvicinamento alla cattedra in
Semiotica, che lo studioso ottiene all’Università di Bologna nel
1975. Nella sua bibliografia figurano già titoli come Apocalittici
e integrati (1964), La struttura assente (1968) e il
fondamentale Trattato di semiotica generale. A breve si
aggiungeranno Il superuomo di massa (1976), Lector in
fabula (1979) e numerosi altri saggi che segnano profondamente lo
spirito del tempo.
Docente appassionato e
all’occasione severo (valutò negativamente una tesina del suo
studente Pier Vittorio Tondelli perché troppo letteraria e non
abbastanza scientifica), Eco è il commentatore arguto e sapiente che
ogni settimana firma “La bustina di Minerva” sull’“Espresso”,
è un bibliofilo impenitente e, nello stesso tempo, una voce molto
ascoltata su tematiche politiche e sociali. L’esordio come
narratore, in un certo senso, sorprende perfino lui. Il nome della
rosa era, nelle intenzioni, poco più di un divertimento
accademico che Valentino Bompiani, il suo editore, pubblica nel 1980
in poche migliaia di copie. Il successo è immediato e
impressionante: il premio Strega, le traduzioni internazionali, il
film interpretato da Sean Connery, le vendite che sfiorano quota
dieci milioni.
Ambientato in un Medioevo
nel quale le indagini di Sherlock Holmes si intrecciano alle fantasie
metafisiche di Borges, Il nome della rosa è anche il libro da
cui scaturisce in Italia la polemica sul postmoderno. Eco è accusato
di patrocinare una narrativa combinatoria, sfuggente, ordita per
soddisfare le esigenze di quell’industria culturale che lo stesso
scrittore aveva in precedenza avversato. I romanzi successivi, dal
Pendolo di Foucault (1988) a Numero zero (2015),
passando per L’isola del giorno prima (1994), Baudolino
(2000), La misteriosa fiamma della regina Loana (2004) e Il
cimitero di Praga (2010) giustificano almeno in parte le
critiche. Eco, però sostiene di partire da un assunto diverso. «A
quanto pare – dichiarava nella già ricordata intervista del ’94
– senza accorgermene, scrivo sempre romanzi teologici». E ancora:
«Non so dire quale sia esattamente l’idea attorno alla quale, per
me, tutto ruota. Forse il problema se il mondo esiste». Nel 2012, in
una conversazione con “Avvenire” favorita dalla pubblicazione dei
suoi Scritti sul pensiero medievale, aggiungeva: «Sono
convinto che viviamo sommersi da falsificazioni, dalla menzogna come
strumento di potere e di manipolazione del consenso, dalla diffusione
di false notizie come arma di destabilizzazione. Questo è il
Diavolo».
In che cosa crede chi
non crede? è il titolo del suo carteggio con il cardinale Carlo
Maria Martini, svoltosi a metà degli anni Novanta e riproposto nel
2014 da Bompiani, la casa editrice che ha in catalogo quasi tutta la
sua opera, compresi i saggi dell’ultimo decennio, tra cui andranno
ricordati Storia della bellezza, Storia della bruttezza,
Vertigine della lista e Storia delle terre e dei luoghi
leggendari. Questa lunga consuetudine non gli aveva impedito di
unirsi, nel novembre scorso, all’impresa della Nave di Teseo, la
nuova sigla editoriale lanciata da Elisabetta Sgarbi in risposta
all’acquisizione di Rcs Libri (di cui Bompiani fa parte) da parte
di Mondadori. Un’impresa che Eco aveva scelto di sostenere anche
economicamente e alla quale aveva voluto contribuire con Pape
Satàn Aleppe, una raccolta di scritti sulla società
contemporanea la cui uscita è ora annunciata per il 27 febbraio.
Titolo beffardo, come nello stile di Eco, ma si sa che tra i saggi ce
ne sarà anche uno su papa Francesco. In lui l’esegeta della Summa
Theologiae riconosceva un erede dei gesuiti che nel Seicento avevano
realizzato le reducciones a beneficio degli indios del Paraguay.
Erudizione o non erudizione, questa volta il fuoco Eco lo aveva
guardato davvero.
“Avvenire”, 21
febbraio 2016
Nessun commento:
Posta un commento