15.1.12

3 settembre 1960. Berruti, l'arcangelo frigido (Fruttero e Gramellini)

Massimo Gramellini è persona colta e giornalista di costume acuto e brillante. Da qualche tempo i suoi pezzi e i suoi interventi mi piacciono assai meno giacché anche lui – come tantissimi altri – mi pare attratto dal “ritorno all’ordine”, alto-borghese e finanziario, di questi ultimi mesi, cui si connette una “brama di servizio” degna di miglior causa.
Nel 2010, insieme al grande Carlo Fruttero, Gramellini curò, per “La Stampa”, una rubrica dal titolo Storia d’Italia in 150 date. Si trattava di un’ultima pagina – per 4 giorni alla settimana credo – e centocinquanta erano in realtà le pagine, una per anno; ma in ogni pagina c’erano di solito due date, occasione di rievocazione, di taglio cronachistico, di eventi della politica, della nera, del costume, dello sport eccetera.
Da quella “storia conto di riprendere alcuni momenti, tra i più curiosi e meglio scritti. Qui propongo la rievocazione delle Olimpiadi di Roma del 1960 e dell’eroe italiano di quelle competizioni, Livio Berruti, che fu pubblicata sul quotidiano torinese il 3 settembre 2010, a 50 anni esatti dall'evento. Nella mia memoria personale quella gara dei 200 metri è legata al rapporto con il Pci. Al tempo non avevamo la televisione a casa; la vedevo da mia nonna Carmelina con gli zii che d’estate c’erano tutti. Ma alcune gare preferivo vederle insieme con i coetanei. Al bar non si poteva, pretendevano la consumazione; andavamo alla sezione del Pci, dove ci accoglievano a braccia aperte alla sola condizione che non facessimo “bordello”. Appresi dalla diretta esperienza che i comunisti avevano soltanto due narici e non mangiavano in bambini. (S.L.L.)
Roma 1960, Wilma Rudolph e Livio Berruti
Nonostante le convulsioni e i contorsionismi della politica, l'Italia è una potenza economica e la sede delle Olimpiadi estive. Che organizzerà benissimo, nonostante la pioggia di soldi abbia partorito il padre di tutti gli appalti, l'aeroporto di Fiumicino, costato cinque volte più del dovuto: già pochi mesi dopo l'inaugurazione, la pista si squaglia come un gelato perché è stata costruita con materiali scadenti su un terreno paludoso.
Sono Giochi splendidi, nonostante. Abebe Bikila vince la maratona nonostante corra a piedi nudi, Cassius Clay incanta sul ring nonostante saltelli più che picchiare, Wilma Rudolph diventa la donna più veloce del mondo nonostante sia stata una bimba affetta da poliomielite. E uno studente torinese diventa un mito nonostante corra con gli occhiali da vista e i calzini bianchi.
Quando, alle 4 del pomeriggio, Livio Berruti esplode dai blocchi dei 200 metri piani, pochi scommetterebbero di rivederlo in pista due ore più tardi nella finalissima. Gli è capitata la batteria peggiore, quella dei tre primatisti mondiali. Li supera in curva con una corsa talmente fluida che può concedersi il lusso di una frenata sul rettilineo per non sprecare energie.
E' questo, adesso, il problema. Quanta benzina gli sarà rimasta? Le due ore di attesa sono, per gli italiani, le più emozionanti dei Giochi. Sugli spalti dell'Olimpico i venditori di bibite scandiscono «Cocacola, acqua minerale, Berruti» e nei tinelli d'Italia, dove per la prima volta la televisione porta le emozioni del grande sport, si intrecciano previsioni e scommesse. Tutti si chiedono cosa starà facendo Berruti. E nessuno immagina la verità: è sdraiato su una panca degli spogliatoi con un libro fra le mani, l'esame di chimica organica.
Eccolo in pista, finalmente. Con un lembo della tuta pulisce gli occhiali neri che diventeranno una moda, ma per lui - miope - sono ancora un'esigenza. Sembra calmo, invece compie una falsa partenza. Poi arriva quella buona: affronta la curva senza sbandamenti, insensibile alla forza centrifuga, e sul rettilineo è davanti a tutti, preceduto solo da un volo di colombi. Nella sua ombra spunta Les Carney, «demoniaco negro da saga medievale», lo bolla senza scrupoli la cronaca di Gianni Brera. Ma il cavaliere di questa saga è Berruti, «l'arcangelo frigido» (sempre Brera). Sarà lui a spezzare il filo di lana, sporgendosi in avanti con il busto fino a perdere l'equilibrio. Mentre il pubblico in delirio dà fuoco ai giornali e li agita come torce nel buio della sera, «l'arcangelo frigido» si pianta in mezzo alla pista, immobile. Dirà: ero così felice che non sapevo cosa fare. 

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