3.1.12

Francis Scott Fitzgerald. Il ritorno del grande Gatsby (di Luca Briasco)

Dal 1° gennaio 2011, trascorsi i prescritti settant'anni dalla sua morte, le opere di Francis Scott Fitzgerald - insieme a Hemingway e Faulkner, maestro indiscusso della narrativa americana della prima metà del '900 - non sono più vincolate dai diritti d'autore, e possono pertanto essere pubblicate liberamente. Nel giro di un mese, l'opus neanche troppo imponente di Fitzgerald (in tutto cinque romanzi, di cui uno pubblicato postumo e incompiuto, un consistente numero di racconti e un pugno di saggi) è stato sottoposto a un vero e proprio assalto. E non stupisce che, in assoluto, il libro più «sfruttato» sia stato quello che molti considerano il capolavoro assoluto di Fitzgerald, il punto di miracoloso equilibrio tra i primi due romanzi, ancora tradizionali nella forma e immaturi nello stile, e il romanticismo affascinante, coraggioso e slabbrato dei lavori successivi.
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Le versioni e le riproposte
Parlo, naturalmente, del Grande Gatsby. Che dopo essersi insediato stabilmente nell'immaginario collettivo attraverso l'unica, «storica» traduzione di Fernanda Pivano, è ora disponibile in cinque diverse versioni: quella pubblicata da Feltrinelli e affidata a Franca Cavagnoli, scrittrice, saggista e traduttrice di classici contemporanei, da Toni Morrison a Coetzee; quella di Minimum fax, curata da un'americanista di grande qualità e rigore come Sara Antonelli, e tradotta da Tommaso Pincio, scrittore e profondo conoscitore del canone statunitense; quella di Marsilio, un testo a fronte curato con grande competenza da Gianfranca Balestra e tradotto da Roberto Serrai, che ha firmato alcuni dei maggiori successi Adelphi; e i due tascabili di Newton Compton e di Dalai editore, affidati rispettivamente a Bruno Armando e Alessio Cupardo. Né la messe di proposte fitzgeraldiane si ferma qui: Minimum fax ha in programma la pubblicazione dell'intera opera, sempre con la curatela di Sara Antonelli e con traduzioni di alcuni tra i migliori scrittori italiani, e al Gatsby di Pincio ha già affiancato i Racconti dell'età del jazz, affidati a Giuseppe Culicchia; Newton Compton, con la rapidità e il tempismo che ne caratterizzano ormai da anni il lavoro editoriale, ha pubblicato un'altra edizione dei Racconti dell'età del jazz e una di Tenera è la notte, anch'esse firmate da Bruno Armando, oltre a riproporre il secondo romanzo di Fitzgerald, Belli e dannati, già presente nel suo catalogo, nell'autorevole versione di Pier Francesco Paolini; Dalai editore, oltre al Gatsby, propone, sempre nei suoi «classici tascabili», anche Tenera è la notte, tradotto anch'esso da Alessio Cupardo.
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Ragioni di un mito
Non è infrequente né insolito che le opere di un grande scrittore, non appena cessano di essere protette dal diritto d'autore, vengano riproposte da più editori, quasi sempre in nuove versioni «firmate» che contribuiscono a rinfrescarne l'impatto e ad accrescere l'interesse della rilettura; non è però altrettanto frequente che, nel giro di un mese solo, il lettore possa scegliere tra cinque diverse traduzioni dello stesso romanzo, oltre che tra due diverse versioni di altre opere. È legittimo domandarsi se questo cumulo di edizioni, che spaziano dal testo a fronte alla versione d'autore, al tascabile più o meno curato, sia l'ennesima follia di un mercato editoriale fortemente inflattivo, che riversa nelle librerie molti più titoli di quanti i lettori siano in grado di assorbire, o se abbia a che fare con uno status specifico dell'autore interessato, in una sua capacità di parlare a un pubblico vasto e trasversale, e di durare nel tempo. Legittimo farlo, e anche urgente, se si pensa, a mero titolo di esempio, che a partire dal 1° gennaio del 2012 saranno fuori diritti e quindi pubblicabili ad libitum titoli fondamentali del canone letterario novecentesco come L'armata a cavallo, di Isaak Babel, o come l'Ulisse di James Joyce.
La verità, forse, sta nel mezzo: potremo attenderci magari tre, quattro diverse versioni dell'Ulisse o del capolavoro di Babel, ma è improbabile che intorno a questi due mostri sacri si scateni la bagarre davvero insolita che ha circondato Il grande Gatsby. Una bagarre certamente incoraggiata dalle voci su una terza versione cinematografica, affidata a Baz Luhrmann, con Di Caprio nel ruolo che fu prima di Alan Ladd, poi di Robert Redford, ma la cui ragion d'essere prescinde da qualunque considerazione contingente e ha a che fare con lo status di un romanzo che come pochi altri ha saputo coniugare il magistero stilistico e la complessità strutturale delle grandi opere moderniste con la capacità di parlare alla pancia del lettore, di assecondarne e orientarne il sentire, tipica della grande letteratura popolare.
Le tante ragioni che fanno del Grande Gatsby un'opera ascesa alla dimensione del mito letterario sono ben elencate e analizzate nelle due introduzioni critiche di Sara Antonelli e di Gianfranca Balestra, che ricostruiscono la genesi del romanzo, ne esaminano le caratteristiche portanti, ne studiano la ricezione e la fortuna critica. Fu lo stesso Fitzgerald, con una consapevolezza che ha pochi uguali anche nel contesto del modernismo, a enunciare la fertile contraddizione che intendeva perseguire con il suo romanzo, quando nel 1922, tre anni prima della effettiva pubblicazione di Gatsby, mandò queste righe al suo editor Maxwell Perkins: «Voglio scrivere qualcosa di nuovo - qualcosa di straordinario, di bello e semplice e dalla struttura intricata».
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Una scrittura mobilissima
Semplicità e complessità: è nella miracolosa coesistenza di questi due opposti che consiste, prima di tutto, la magia del Grande Gatsby, la misteriosa potenza che alienò a Fitzgerald una parte significativa dei lettori che avevano ammirato i suoi primi due romanzi (dove la semplicità, a perenne rischio di semplicismo, la faceva da padrona). Una coesistenza di opposti che non si cancellano ma si corroborano a vicenda: la storia, semplice, quasi banale, venata di romanticismo, è calata in una struttura ellittica, costruita per sottrazione, e veicolata da una scrittura mobile ed elegante, capace di trascorrere nel giro di poche righe dal più frivolo e mimetico dei dialoghi all'aforisma secco e memorabile; dalla descrizione metonimica di un luogo o di un assembramento a furibonde accensioni espressioniste.
Storia di passione e di adulterio; affresco spietato di una società attraversata da razzismi e diseguaglianze; gangster story a tinte gialle; riscrittura del mito americano del successo, carica di elementi critici; Il grande Gatsby è naturalmente tutto questo, e molto altro ancora. Sul piano dell'evoluzione del romanzo, insieme a Cuore di tenebra di Conrad e ai romanzi di James (ma anche al Melville di Benito Cereno), sancisce il definitivo spostamento da una narrazione piena, lineare, tutta esposta, incentrata sulla prospettiva dell'eroe o comunque del personaggio centrale, a un racconto mediato e reticente, affidato al punto di vista inevitabilmente circoscritto e non sempre credibile di un narratore-testimone. Merito specifico di Fitzgerald è utilizzare il nuovo modello narrativo e l'instabilità epistemologica che esso suggerisce per aggredire il mito stesso dell'America, raccontandone la fascinazione e l'orrore, l'inevitabilità e il fallimento. E di scrivere così, al contempo, il più romantico e antiromantico dei romanzi.
Non stupisce, allora, l'impatto davvero impressionante che la lettura del romanzo ha avuto prima di tutto tra i colleghi scrittori: da T.S. Eliot, che in una lettera entusiastica all'autore lo definì «il primo passo in avanti fatto dalla narrativa americana dai tempi di Henry James», a Ernest Hemingway, che aveva accomunato in un giudizio impietoso i primi due romanzi di Fitzgerald ma restò folgorato dal Grande Gatsby, riconoscendovi un punto di svolta e di non ritorno nella carriera dell'amico-rivale. Ma anche a J.D. Salinger e Ralph Ellison, forse i due narratori più grandi del secondo dopoguerra, entrambi ossessionati dal Gatsby al punto che il primo lo cita espressamente nel Giovane Holden e il secondo torna ossessivamente sui temi del romanzo in molti saggi e narrazioni.
Alla sfida di un libro tanto semplice e insieme complesso, i cinque traduttori hanno risposto in modi diversi, legati tanto alla sensibilità individuale quanto, forse, alla collocazione editoriale e alla destinazione d'uso del libro. Roberto Serrai accetta il corpo a corpo inevitabile in un testo a fronte e approda a una resa fedele senza perdere nulla del ritmo incantatorio del romanzo. Tommaso Pincio sembra voler riprodurre la dimensione vagamente démodé del romanzo, la patina che il tempo ha depositato su molte sue pagine, per dimostrarne a maggior ragione l'universalità, la capacità di trascendere il contesto nel quale è stato concepito (leggo in questa chiave, per esempio, la decisione di tradurre l'epiteto «old sport», che Jay Gatsby rivolge a quasi tutti i suoi interlocutori maschili, non con il più ovvio «vecchio mio», ma con un insolito e curioso «vecchia lenza»). Franca Cavagnoli alterna soluzioni illuminanti ad altre più faticose, nella perenne ricerca di un registro alto e di un'adesione alle continue oscillazioni del testo. Di servizio, infine, e non lo dico in un'accezione negativa, le traduzioni di Bruno Armando e di Alessio Cupardo, che privilegiano la scorrevolezza della resa e non esitano, in alcuni casi, a sacrificare la fedeltà ritmica e semantica al testo originale.
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A ciascuno la sua illuminazione
A prescindere dalle diverse scelte adottate, ciascuna delle cinque traduzioni riproduce in modo corretto il senso del romanzo e si sforza di perseguire una compattezza e una continuità nella resa stilistica: caratteristiche, queste, non sempre presenti nella traduzione «storica» di Fernanda Pivano, piatta in alcuni passaggi, irrisolta in altri, inevitabilmente invecchiata. Si tratta di una considerazione doverosa, che nulla toglie alla straordinaria opera di diffusione della cultura americana che Pivano ha saputo svolgere per decenni come divulgatrice, come saggista e, spesso, come traduttrice. Anche nel caso di Gatsby, il lavoro di Fernanda Pivano continuerà a lungo a costituire un punto di riferimento: è nella sua versione che questo romanzo straordinario è penetrato nella cultura italiana, creandosi uno spazio sempre più ampio e ricco con il succedersi delle generazioni. Credo tuttavia che sia giunto il momento, e non soltanto per Fitzgerald, ma anche, forse, per gli autori ancora «vincolati» (come Faulkner, letteralmente rigenerato dalle nuove versioni Adelphi, curate da Mario Materassi), di «riscoprire» e «rinfrescare» il nostro canone americano, attraverso traduzioni che, inevitabilmente, siano anche riletture, occasioni per riprendere in mano autori che già ci appartengono, e per riappropriarcene. Si tratta di un processo soggettivo, nel quale ciascuno può approdare alle sue piccole illuminazioni.
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Un esempio dall'ultima pagina
Mentre passavo da una all'altra delle cinque traduzioni, a me è accaduto con l'ultima pagina del Grande Gatsby, in cui, subito prima di ripartire per l'ovest, Nick Carraway, il narratore, si reca sulla spiaggia davanti alla villa di Gatsby, e vede lentamente svanire le case sul lato opposto della baia. Ecco come questo straordinario passaggio viene rivitalizzato dalla superba traduzione di Roberto Serrai: «E come la luna salì più in alto, le case cominciarono a perdere sostanza e a confondersi col resto, finché lentamente vidi la vecchia isola che un tempo fiorì agli sguardi dei marinai olandesi - il fresco, verde seno del nuovo mondo. I suoi alberi adesso svaniti, gli alberi che avevano fatto spazio alla casa di Gatsby, una volta avevano assecondato con un sussurro l'ultimo e il più grande di tutti i sogni umani; per un transitorio, incantato momento l'uomo deve aver trattenuto il respiro al cospetto di questo continente, mosso a una contemplazione estetica che non capiva né desiderava, faccia a faccia per l'ultima volta con qualcosa di commisurato alla sua capacità di meraviglia.» Un piccolo miracolo, fra i tanti che, nelle duecento pagine scarse del Gatsby moltiplicate per le sue cinque, nuove traduzioni, ogni lettore potrà avere la gioia di scovare.

“il manifesto”, 5 febbraio 2011

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