Pane di Castelvetrano |
Sotto il titolo Fratelli di Teglia Rocco Moliterni propone ogni giovedì su “La Stampa” un “francobollo” gastronomico, storico e letterario, spesso infarcito di gustose curiosità. Quello che segue come appendice a questa mia divagazione sembra, a prima vista, più letterario che storico, ma contiene tra le righe interessanti informazioni sul mutare delle abitudini alimentari torinesi in una con le ondate migratorie.
A proposito di pane letterario: la memoria non mi soccorre più, ma deve essere in un’opera importante, meridionalista, o forse in un testo teatrale, il passo in cui qualcuno dichiara di star mangiando “pane e pane”, così testimoniando la propria povertà. Spero di recuperare la fonte grazie a qualche buon commentatore.
La memoria, invece, funziona perfettamente quando mi rimanda all’adolescenza, nella campagna ch’era di mio nonno Salvatore, alla “Musta”. Un ragazzo, mio coetaneo, mangiava, seduto su un pietrone, “pane e pane”. Non era caldo di forno, forse non era neanche fresco, ma - ben conservato com’era - ugualmente profumava. Gliene chiesi un pezzetto ottenendolo e ricordo tuttora il sapore. Forse ha ragione Proust quando ne La strada di Swann scrive: “Ma quando niente sussiste di un passato antico, dopo la morte degli esseri, la distruzione delle cose, soli, più tenui ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore lungo tempo ancora perdurano, come delle anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla impalpabile, senza vacillare, l’immenso edificio del ricordo”. (S.L.L.)
Appendice
Il miglior amico dell’uomo
di Rocco Moliterni
Pane di Altopascio |
Fin dall'antichità, dove veniva condito con i circenses. Più tardi sono state inventate la panzanella (per chi non osava raccontare grandi panzane) e la bruschetta (per chi aveva modi ruvidi e non disdegnava l'aglio). Per Dante quello altrui era sempre salato. E dire che l'autore della Divina Commedia non aveva mai avuto modo di entrare in una di quelle boutique che costellano le grandi città dove per un chilo di pane (ovviamente con lieviti naturali e cotto nel forno a legna) devi fare un mutuo. Torino, dove un tempo imperava la biova e oggi la baguette da supermercato, ha conosciuto varie mode. Negli Anni 50, l'arrivo dei ristoratori toscani lanciò il pane di Altopascio, negli Anni 60 con l'immigrazione dal Sud non c'era panetteria che non avesse il pane pugliese di Altamura (ma in Lucania c'è chi sostiene che sia quello di Matera il miglior pane del mondo). Per un certo periodo sempre sotto la Mole trionfò invece il pane sardo (ma non il carasau) in grandi forme con un bollino dai quattro mori. Inutile dire che in Sicilia sono convinti che sia quello di Castelvetrano il pane più buono e che a Ferrara per la loro ciopa o ciupeta (ossia coppia) di pane scioperebbero (morirebbero in piemontese). Insomma è il campanilismo la caratteristica del nostro paese, anche per ciò che riguarda il pane. Per questo era l'unica cosa che non veniva portata in dono dai diplomatici: ambasciator non porta pane.
“La Stampa”, 22 settembre 2011
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