La crisi morde ed è da settembre che non escono i supplementi gastronomici del “manifesto”. Quest’anno è saltato il Natale: probabilmente non c’erano sponsor oppure – col governo dei tecnici – è necessario mettersi proprio a stecchetto. Anche a Natale. A maggio l’inserto “scritto e mangiato”, come sempre redatto in collaborazione con Slow Food, si intitolava Il salto del latte, era dedicato ai formaggi ed era pieno di gustose curiosità. Conteneva anche un articolo di polemica, di Loris Campetti, contro l’accoppiata tra pesce e formaggio, verso la quale l’autore mostra una feroce idiosincrasia. A sostegno della sua tesi porta Archestrato di Gela, il poeta gastronomo che un paio di decenni or sono Silvana Grasso tradusse per Flaccovio. Ma Archestrato – lo ammette persino il Campetti furioso – faceva qualche eccezione: preparava le Code di rospo ripiene di formaggio. Io, che sono moderatamente d’accordo con Campetti, faccio eccezione per i calamari ripieni della mamma mia, con parmigiano e pecorino, che l’iroso “manifestino” detesta e calunnia. Condivido invece a pieno le sue diffidenze per il ripiddu nivicatu (“vulcano annevato”) che nel catanese taluni fanno col riso altri con spaghetti o bucatini disponendo abbondante ricotta su un già ricco sugo al nero di seppia. L’occhio vuole la sua parte e la scenografia è degna di Petronio, ma l’apparato digerente non va provocato oltre misura. (S.L.L.)
Mi hanno sempre raccontato che quelli nati sotto il segno del cancro sono conservatori. Alla fine ho buttato la spugna e ho ammesso la colpa ancestrale. Per esempio, la mia idiosincrasia per il connubio tra pesce e formaggi – latticini in genere – in una stagione in cui invece l’accoppiata va per la maggiore, confermerebbe la teoria astrologica. Basterebbe fare un giro in internet per scoprire centinaia di piatti che mescolano con nonchalance salmoni, crostacei, molluschi, sogliole, calamari e ogni specie marina con pecorini, parmigiani, provole, caciotte e ricotta. Per non dire del burro, che l’Ultimo tango a Parigi (e una depravata tradizione francese che violenta i delicati frutti di mare con burro e panna) ha dichiarato buono per tutti gli usi. Per tutti gli usi pazienza, ma anche per tutti i gusti?
E’ vero che in cucina come in amore quasi tutto è permesso. Quasi. Ricordo mio padre come un
uomo integerrimo, quasi perfetto: avendolo perduto da bambino è normale che sia così. Se devo pescare nella mia memoria un suo difetto, devo confessare che metteva il parmigiano sulla pasta alle vongole e io mi vergognavo guardando la faccia del cameriere, nelle pochissime volte che mi aveva portato al ristorante. Pazienza, nessuno è perfetto. Se fosse ancora vivo mio padre, forse non dovrei più vergognarmi, neanche di fronte a un consesso di chef.
Sono circondato da rieducatori che tentano di costringermi a fare un salto evolutivo nonché rivoluzionario, accettando finalmente e mettendo a valore le differenze, esaltando le trasgressioni: le regole vanno stracciate, interdit d’interdire.
Il risotto con i scampi all’istriana, dicono persino i classici, prevede una modica grattugiata di parmigiano durante la mantecatura, naturalmente con un cucchiaio di burro. Che posso rispondere,
se non proporre in alternativa ai due latticini una presa di ottimo zafferano? Comunque, è questo il punto a cui sono giunto con fatica, fate come vi pare ma lasciatemi storcere il naso. Oppure mi chiedo perché un pesce delicato come la sogliola debba essere colpevolmente affogato nel burro invece di consentirgli di esaltare il suo sapore con l’olio d’oliva – magari un delicato extra vergine ligure - solo perché una sedicente “mugnaia” ci ha tramandato la nefasta ricetta? Chi si crede di essere questa mugnaia?
Ci sono villaggi ancora quasi immacolati di pescatori sardi di cui non riveleremo le coordinate per egoismo e tutela del paesaggio anche umano - si fa per dire, conoscendo quei pescatori – in cui va alla grande la mustela (Onos mediterraneus: pesce crepuscolare che può essere osservato a partire da 5 metri di profondità nelle praterie di Posidonia o sui fondi rocciosi) alla parmigiana: stesso trattamento della povera sogliola, affogata nel burro e in più ricoperta di parmigiano. Nelle notti di luna piena, in quel villaggio senza nome si sente come un pianto, un pungente lamento che ti prende allo stomaco come il burro fritto e ti sussurra “assassino”. E’ lo spirito della Grande Mustela che vaga nei cieli del Sinis senza pace.
Eppure, questa storia del cancro conservatore non mi va giù.
Così mi sono messo a studiare e ho riscoperto un grande filosofo greco: Archestrato da Gela, poeta e gastronomo del IV secolo avanti Cristo a cui dobbiamo la conoscenza di antiche ricette siciliane. Archestrato amava il pesce, con un occhio di riguardo per il gronco e specialmente per la sua testa – de gustibus… Evidentemente il suo segno zodiacale era diverso dal mio, perché nelle sue ricette proponeva persino rane pescatrici (code di rospo) ripiene di formaggio.
Nel suo Edyphateia del 330 a.c. però, invitava a darsi una regolata in cucina con gli intrugli: se la prendeva con le genti di Siracusa colpevoli di condire il pesce con troppo formaggio “giacché costoro preparar non sanno i buoni pesci e guastan le vivande, ogni cosa di cacio essi imbrattando”. Dunque, le porcherie alimentari mescolando il vino con l’acqua santa si sono sempre fatte, non si tratta di essere conservatori o rivoluzionari.
Purtroppo in quel di Catania non si prendono la briga di studiare il saggio filosofo, poeta e gastronomo di Gela e continuano a darci dentro, “ogni cosa di cacio essi imbrattando”. Si chiama “Ripiddu nivicatu”, lo descrivono come un piatto capace di cambiarti la vita e probabilmente è vero, si tratta di capire in che senso te la cambia: è un risotto al nero di seppia in cui c’è di tutto, dall’aglio alla cipolla, dal finocchietto selvatico al pomodoro (non in tutte le ricette), naturalmente le seppie e il loro nero, l’olio e il burro. Alla fine il risotto – se proprio volete provare, troverete in rete la ricetta in diverse varianti, io non collaboro – viene messo in una formina per essere modellato a mo’ di cono per essere poi ribaltato in un piatto da portata, si da somigliare all’Etna. Infine, e qui viene il bello (?), si circonda il vulcano con le seppie e si polverizza la sua sommità con ricotta e parmigiano (c’è chi preferisce il pecorino) perché non c’è Etna senza neve. Non bastando, si fa un buco in cima al vulcano e vi si rovescia qualche cucchiaio di salsa di cottura. Alla faccia dei saggi richiami di Archestrato, e comunque in bocca al lupo ai curiosi. Un piatto certamente da fotografare, e basta.
Mi ripeto che non devo esagerare con le fissazioni e da tempo ho smesso di predicare che il salmone
affumicato può essere servito, invece che con i crostini spalmati di burro, con un filo d’olio d’oliva e alcuni profumi. Mangiatevi il salmone come vi pare, anche se…
Non me la sento invece di negare che il caviale possa essere saggiamente accompagnato da panna acida, né che le alici sott’olio o sotto sale rivivano sul pane imburrato. Invece, quando mi si rifilano dei totani o dei calamari nel cui ripieno siano stati subdolamente inseriti pecorini, provole o parmigiani, perdo la pazienza. Che ragione c’è? Perché mescolare gusti così diversi? Evidentemente
si fa di tutto per far mangiare del pesce a chi non lo ama o non è abituato al suo sapore.
C’è chi spalma i filetti di merluzzo con formaggini alle erbe – giuro che è vero – per poi passare l’intruglio ottenuto nell’uovo, quindi nel pane grattugiato e per ultimo nell’olio bollente. Neanche al gatto. E avanti con le zuppette di pesce infornate con generose fette di fontina e le lasagnette al salmone con “parmigiano quanto basta”. Quanto basta?
Si può ribattere che la cucina francese ha poco da invidiare nel mondo, eppure non c’è ricetta di pesce che non preveda burro, panna, formaggi. Bella roba. Si pensi a un piatto classico d’Oltralpe come la buillabaise: il denso brodo dal sapore fortissimo ottenuto da una lunga e spietata cottura e spremitura del pesce viene condito con del formaggio grattugiato. Vorremo mica mettere in discussione la buillabaise? Certo che no, liberi tutti. Purché ci si lasci mangiare il brodetto dell’Adriatico, magari preparato a San Benedetto del Tronto e accompagnato da fette di polenta molto solida che da quelle parti si chiama polentone. Oppure il caciucco livornese.
Per tornare alla Francia, i frutti di mare di cui le acque del Mediterraneo e dell’Atlantico sono ricche, dalle cozze alle vongole, dai fasolari ai ricci, dalle ostriche ai piedi di porco, vengono sovente tramortiti in gratin e sautè in cui latticini d’ogni genere fanno bollicine biancastre e crosticine appetitose, l’ideale per banalizzare il gusto del mare. Meglio allora, potendoselo permettere, un plateau royal, con i suoi frutti di mare crudi e i crostacei semplicemente bolliti.
Morale della storia: fate come vi pare, ma non dimenticate almeno le raccomandazioni di Archestrato da Gela.
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