15.1.12

Chi uccise Giuseppe Pinelli (di Leonardo Sciascia)


Giuseppe Pinelli con le due figlie
Luigi Calabresi, commissario di polizia, era stato tra gl’inquisitori sulla strage di Piazza Fontana, avvenuta a Milano nel dicembre del 1969. In quel ruolo era stato accusato dal movimento di “Lotta Continua” e dal suo giornale, guidati da Adriano Sofri, di essere responsabile della morte di Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, volato giù dal quinto piano della Questura in circostanze rese assai oscure anche dalle stesse contraddittorie dichiarazioni di polizia e governo.
La polemica contro la strage presto chiamata “di Stato” (e rimasta oramai impunita anche per gli accertati depistaggi operati da organi dello Stato) cominciò subito e si concretizzò in una vera e propria controinchiesta.
Essa si accompagnava – nei movimenti di estrema sinistra – a una forte denuncia del tentativo immediatamente messo in atto dagli inquirenti (in primo luogo il questore Guida e, appunto, il commissario Calabresi) di accusare gli anarchici del cruento attentato. La stessa tragica fine di Pinelli, poi rivelatosi incontestabilmente innocente, era stata usata per confermare la matrice anarchica della strage: al ferroviere erano state attribuite addirittura inesistenti confessioni e dichiarazioni sull’anarchia, anche per avallare la tesi del suicidio.
Dalle denunce di “Lotta Continua” contro i questurini di Milano scaturì un processo per calunnia, che aveva come accusati i redattori del giornale e come accusatore Calabresi; ma esso si trasformò in un processo a Calabresi, che Lc indicava come il principale responsabile della morte di Pino Pinelli. Dopo le controverse prove di lancio di un manichino dalla finestra, i giudici esclusero sia il suicidio, sia l’omicidio: nella sentenza parlarono di un “malore attivo”, per effetto del quale il ferroviere sarebbe precipitato dalla famigerata finestra (troppo alta per una caduta accidentale e “passiva”). “Lotta continua”, proposto l’appello, continuava a chiamare assassino il Calabresi e auspicava che la giustizia proletaria facesse il suo corso a prescindere dalle menzogne della magistratura dello Stato borghese. Quando, nel maggio del 1972, Calabresi venne ucciso, il giornale e i volantini del movimento di Sofri dichiararono che l’atto corrispondeva alla volontà di giustizia del proletariato.
Per anni le indagini sull'uccisione del commissario girarono a vuoto.
Molto tempo dopo nell’agosto del 1988, a sorpresa Leonardo Marino, un operaio meridionale pregiudicato, già militante di “Lotta continua”, si accusò di aver partecipato all’omicidio, indicando come esecutori materiali due suoi vecchi compagni (Bompressi e Pietrostefani) e come mandante il leader di Lc, Sofri.
Era l’inizio di una lunghissima storia giudiziaria, fatta di ricorsi e annullamenti, con sentenze numerose e contrastanti, che si sarebbe conclusa con la condanna definitiva di Sofri. Costui l’avrebbe poi socraticamente scontata, rifiutando di chiedere la “grazia” per un crimine di cui si dichiarava innocente.
Il 28 agosto del 1988 molte pagine de “L’Espresso” furono inevitabilmente dedicate alla confessione di Marino, all’inchiesta e all’arresto di Sofri. Il commento dei fatti venne affidato a Leonardo Sciascia, il quale con ragionevoli argomentazioni si dichiarava convinto dell’innocenza degli imputati. Quello che segue è un passaggio molto interessante che riporta sulla scena l’orribile morte di Pino Pinelli. (S.L.L.)

Ancora oggi, quale verità abbiamo sulla morte dell’anarchico Pinelli se non quella che ciascuno e tutti ci siamo costruita facilmente, e con più o meno gravi varianti a carico di coloro che lo interrogavano?
Pinelli non ha resistito alle torture morali e psichiche, e si è buttato giù dalla finestra: variante più leggera.
O non ha resistito alle torture fisiche, cogliendo il momento di distrazione degli astanti per buttarsi giù.
O alle torture non ha resistito, morendo, ed è stato buttato giù. Ipotesi quest’ultima, che trova riscontro di probabilità nel più recente e accertato caso verificatosi negli uffici di polizia della questura palermitana.
Ed è da ribadire che un delitto così consumato “dentro” le istituzioni è incommensurabilmente più grave di qualsiasi delitto consumato “fuori” (Alberto Savinio diceva: “avverto gli imbecilli che le loro proteste cadranno ai piedi della mia gelida indifferenza”; ma si possono dire soltanto imbecilli coloro che disapproveranno questa mia affermazione?).
E comunque: non è il momento di dire la verità sulla morte di Pinelli, restituendo onore alla memoria di Calabresi se, com’è stato detto, non c’entrava? Non è possibile trovare, tra chi c’era, un “pentito” che finalmente dica la verità?

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