Su Agrigento e l’agrigentino un articolo di promozione turistica da “La Stampa”, vecchio di un anno, scritto da Laura Anello, in combutta con lo Slow Food, con tutti gli artifizi e i piccoli inganni che contengono gli articoli del genere; e tuttavia godibilissimo e infarcito di amene curiosità, qualcuna sorprendente perfino per chi da quelle parti è nato e cresciuto. Nel mio piccolo plaudo all’autrice del pezzo, lo riprendo e lo consiglio. (S.L.L.)
P.S. Nell’articolo mancano sollecitazioni alla visita per il mio borgo natìo, Campobello di Licata, benché il controverso e da poco defunto Calogero Gueli, a lungo sindaco, si dichiarasse convinto che la “città d’arte” di cui s’era fatto promotore con la disseminazione nel paese di murales, sculture e mosaici del suo amico Silvio Benedetto, un poliedrico artista argentino, avrebbe attratto in massa turisti dalle Americhe. Quando i due progettavano il grande e ora semiabbandonato parco della Divina Commedia, disseminato di blocchi di marmo colorati con scene dal poema dantesco, provai a dire a Gueli che sarebbe stata più consona ai luoghi l’illustrazione di un’opera mediterranea, delle Mille e una notte per esempio. Mi rispose che gli statunitensi sanno ben poco di noi e che per loro Firenze o Campobello sono più o meno la stessa cosa: è tutta Italia.
In verità fino ad oggi di turisti nordamericani se ne sono visti ben pochi. Prima della crisi arrivava qualche gruppo di tedeschi, ora neanche quello. E tuttavia in quella pagina de “La Stampa” un riferimento, del tutto meritato, al mio paese c’è: si parla della capra girgentana, della sua difficile salvaguardia, degli splendidi caprini a crudo che, raccogliendone il latte, produce il mio amico Giacomo Gatì nella contrada Montalbo. E’ un tema su cui, un giorno o l’altro tornerò. (S.L.L.)
Agrigento. Il giardino di Kolymbetra nella Valle dei Templi |
E' la Sicilia del mito, la Sicilia dei templi e dei mandorli, delle memorie letterarie di Tomasi di Lampedusa, di Pirandello, di Sciascia, i giganti che hanno respirato e raccontato quest'aria. La Sicilia dove si muove il commissario Montalbano, che la fiction ha trasportato più a Est, nel barocco telegenico di Ragusa, ma che qui è stato concepito, e vive tra questi paesi di splendori e cemento. Agrigento, la Akragas dei greci che vi realizzarono quello che è oggi il parco archeologico più grande del mondo con i suoi dieci templi dorici, le necropoli, i santuari, visitati da 600 mila visitatori ogni anno. La Gergent degli Arabi, Girgenti fino al 1929 quando il fascismo le diede il nome dell'età imperiale romana. La terra che fronteggia l'Africa, dove la primavera sboccia due mesi in anticipo rispetto al calendario.
Nel cuore dell'inverno, il 4 febbraio, si apre la sagra del Mandorlo in fiore, da sessantasei anni la kermesse siciliana del folclore internazionale, un appuntamento fisso nell'agenda dei tanti emigrati dispersi in mezzo mondo e per i turisti che arrivano a respirare l'aria di una tradizione fatta di carretti e tarantelle, ma anche di musica di qualità. Incoraggiati dal clima mite che quasi mai tradisce le attese, gli alberi si vestono di petali bianchi e profumati, un colpo d'occhio che avvolge gli antichi colossi dedicati agli dei.
«Mai visto in tutta la mia vita uno splendore di primavera come stamattina al levar del sole», scriveva Goethe nel 1786 decantando il colpo d'occhio di verde, mare e templi in un colpo solo. Splendore insidiato nell'ultimo secolo dalla speculazione, dall'abusivismo, dall'incuria ma con un così grande capitale di partenza da resistere a tutto. D'altronde, i picchi e gli abissi sono nel Dna di questa città, fondata dai greci nel 581 avanti Cristo e diventata secondo Pindaro «la più bella città dei mortali», poi distrutta dai Cartaginesi nel 406, e ancora ricostruita e ripopolata. Di quella stagione resta una Valle dei Templi che è patrimonio mondiale dell'umanità e che custodisce una piccola gemma: il giardino della Kolymbetra, da dieci anni affidato al Fai, cinque ettari di meraviglie paesaggistiche e botaniche irrigate secondo le tecniche arabe, un posto che - diceva l'abate di Sant Non - «somiglia alla valle dell'Eden o a un angolo della terra promessa».
Città, Agrigento, transitata dalla crudeltà di tiranni come Falaride (passato alla storia per usare come strumento di tortura un toro di bronzo cavo e rovente) al regime democratico del filosofo Empedocle, che rifiutà il potere offertogli dal popolo e diede il via alla stagione d'oro, il tempo in cui - diceva lui stesso - «gli akragantini costruiscono case e templi come se non dovessero morire mai e mangiano come se dovessero morire l'indomani».
A lui è dedicata Porto Empedocle, il paese dove è nato Camilleri, la Vigàta del commissario Montalbano che qui si delizia con triglie allo scoglio dell'osteria San Calogero, che esiste davvero in via Roma. Il vecchio sindaco aveva fatto pure un referendum per aggiungere il nome letterario a quello vero e aveva fatto piazzare i nuovi cartelli agli ingressi del paese. Il successore li ha tolti in nome della verità, ma progetta di realizzare in piazza una statua a Montalbano che somiglierà a Luca Zingaretti. Ma è tutto il mondo di Camilleri che ruota qui, nella Sicilia del Sud: dalla Merfi che in realtà è Menfi, con i suoi vigneti che declinano su un litorale amato da intellettuali che fuggono la folla, a Fiacca che è Sciacca, con l'isola Ferdinandea emersa nel 1834 per pochi giorni e poi di nuovo scomparsa sott'acqua. E ancora Fela, la Gela deturpata dal petrolchimico e dal cemento; Raccadali, che in realtà si chiama Raffadali; Montelusa, che è il nome preso a prestito dalle novelle di Pirandello con cui Camilleri chiama Agrigento.
Già, Pirandello, l'interprete della «corda pazza» siciliana che qui si esprime più che altrove, come se la realtà si trasfigurasse sotto questo sole che è un anticipo d'Africa. Qui c'è la casa-museo dove lo scrittore è nato, qui le sue ceneri, anche se il pino secolare che le vegliava è stato spazzato via anni fa da una tromba d'aria. Leonardo Sciascia teneva la sua fotografia sulla scrivania, nella vicina Racalmuto. E anche lì vale la pena fare un giro, alla Fondazione che ospita le sue lettere, tra i luoghi dove cercò rifugio dalle persecuzioni del Sant'Uffizio il frate libertario Diego La Matina, protagonista del suo Morte dell'Inquisitore. E poi c'è anche Palma di Montechiaro, la città degli avi di Tomasi di Lampedusa, con il palazzo del Gattopardo. E ancora Naro, dove la sagra del Mandorlo in fiore nacque nel 1934 come festa contadina, prima di migrare ad Agrigento e diventare kermesse internazionale ispirata alla pace tra i popoli. Ambizione conclamata dalla tradizionale accensione del Tripode dell'amicizia come a un'Olimpiade. Davanti al tempio della Concordia, vicino agli dèi.
"La Stampa", 27 gennaio 2011
"La Stampa", 27 gennaio 2011
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