8.1.12

Lazzarillo de Tormes (di Carmelo Samonà)

Un povero mugnaio processato per furto ed esiliato, una madre vedova che fa la lavandaia per tirare su i figlioletti, un bambino orfano e denutrito che si mette al servizio di un mendicante cieco, di un prete sordido e avaro e di uno scudiero millantatore e povero, ed è costretto a subire ogni sorta di privazioni e di angherie… Potrebbero essere gli ingredienti tipici di un romanzo ottocentesco, magari d’epoca vittoriana, destinato alla proba commiserazione dei lettori borghesi e al pianto delle giovinette. Invece sono i personaggi, e i primi avvenimenti, di un capolavoro della narrativa classica, spagnolo e non inglese: il Lazzarillo de Tormes, dato alle stampe verso la metà del Cinquecento e rivolto a un pubblico più incline, con ogni probabilità, a divertirsi e a sorridere beffardamente che a versar lacrime. […]
Niente, in effetti, è più lontano dal Lazzarillo de Tormes che il moralismo edificante della povertà derelitta; niente gli è più estraneo di una qualsiasi petizione di affetto o tentativo di seduzione rivolti al decoro sociale e ai buoni sentimenti dei lettori. La prima virtù di quest’opera concentrata e crudele è la sobrietà. L’autore, rimasto anonimo probabilmente per ragioni di prudenza (siamo in Spagna, agli albori della Controriforma), è riuscito a escludere dal proprio testo tutto ciò che non è narrazione pura. Egli è debitore, sul piano dei contenuti d’una tradizione medievale ricca di apologhi, historietas e fabliellas, per lo più di taglio popolare, dove la degradazione sociale è già apparsa nei toni più crudi e ha dato vita a un’ampia e pittoresca tipologia di reietti; ma si rivela un potente innovatore sul piano del gusto, delle scelte linguistiche, della capacità di rielaborare i modelli di cui può disporre. Non inventa nulla di nuovo, forse, ideando il furfantello servitore di molti padroni, il prete sfruttatore o il mendicante abietto; crea, però, un prototipo della “novela picaresca”, e del romanzo moderno in genere, quando combina assieme tutti elementi alla luce di una nuova prospettiva strutturale.
Il suo segreto è la straordinaria forza dell’“io narrante”. Si può dire che una nuova civiltà del racconto nasce, in Europa, nel momento in cui l’autore del Lazzarillo ha il coraggio di far credere ai suoi lettori che una storia come quella – la storia di un miserabile accattone e delle sue squallide avventure – possa essere narrata in prima persona da lui stesso; e per di più senza il puntello di cornici allegoriche, di mediazioni fantastiche o volutamente fiabesche, di coperture ideologiche e moraleggianti: così com’è, insomma, come se fosse stata realmente vissuta e scrupolosamente annotata da chi ora la racconta.

Postilla
Il ritaglio da “Repubblica” onde ho tratto questo succoso giudizio critico del grande ispanista Samonà è senza indicazione di data, ma è quasi certamente del 1980. (S.L.L.)

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