Quando mi iscrissi alla Fgsi e poi alla Fgci, tra il 1964 e il 1965, al mio paese natìo come in molti altri della Sicilia e del continente i rapporti tra la Cgil e la Cisl erano pessimi, ancora da guerra fredda. Dai compagni la Cisl era vista come il sindacato dei preti e dei democristiani e non si poteva dare loro tutti i torti. Solo qualche anno dopo sarebbe esplosa dal basso la voglia di unità tra i lavoratori, che avrebbe travolto gli steccati.
Il Primo Maggio, benché riconosciuto come festa nazionale, era rimasto a lungo festa dei social-comunisti e la Cisl non usava partecipare ai riti festosi di quel giorno (e neanche la Uil, pressoché inesistente): il corteo con la fanfara, il lancio di palloni umoristici ad aria calda (il più a rischio era sempre la grande colomba della pace, bianca, ma con falce e martello), i garofani rossi all’occhiello dei compagni più vecchi, l’orchestrina che nello spettacolo alternava il rock italiano al melodico e dava spazio all’improvvisazione nell’ora del dilettante, i ragazzini sotto il palco per guardare dalle fessurine le cosce della cantante e il vecchio militante che di quando in quando li allontanava.
Immancabile era – a metà spettacolo - il comizio del predicatore forestiero, introdotto dai segretari della Camera del lavoro e della Lega minatori.
Immancabile era – a metà spettacolo - il comizio del predicatore forestiero, introdotto dai segretari della Camera del lavoro e della Lega minatori.
Da qualche anno, tuttavia, la Cisl celebrava un suo Primo Maggio, o più esattamente il San Giuseppe Lavoratore, che la Chiesa cattolica, seguendo l’uso antichissimo di appropriarsi delle altrui feste, aveva inserito nel suo calendario liturgico. Il Giuseppe dei Vangeli – per quel che se ne sa – era sì lavoratore manuale, falegname, ma in proprio, un artigiano, e questo escludeva la lotta di classe che preti e cislini aborrivano.
Fatto sta che a metà degli anni sessanta il pomeriggio del dì di festa un piccolo corteo di cislini e aclisti percorreva le vie del paese, preceduto dalla statua del santo lavoratore e padre putativo, dal parroco di San Giuseppe in cotta, da un gruppetto di chierichetti e da una piccola banda musicale. A me dava sui nervi il fatto che suonassero l’Inno dei lavoratori, che ritenevo esclusivo del movimento operaio social-comunista: quella esecuzione mi appariva una appropriazione indebita. Fin da allora ero convinto che quell’inno, con i suoi richiami alla solidarietà e alla lotta di classe, con il suo internazionalismo, fosse parte integrante della fede nel socialismo di cui ero neofita entusiasta.
Fatto sta che a metà degli anni sessanta il pomeriggio del dì di festa un piccolo corteo di cislini e aclisti percorreva le vie del paese, preceduto dalla statua del santo lavoratore e padre putativo, dal parroco di San Giuseppe in cotta, da un gruppetto di chierichetti e da una piccola banda musicale. A me dava sui nervi il fatto che suonassero l’Inno dei lavoratori, che ritenevo esclusivo del movimento operaio social-comunista: quella esecuzione mi appariva una appropriazione indebita. Fin da allora ero convinto che quell’inno, con i suoi richiami alla solidarietà e alla lotta di classe, con il suo internazionalismo, fosse parte integrante della fede nel socialismo di cui ero neofita entusiasta.
Ieri tuttavia, leggendo i saggi sul canto sociale di Cesare Bermani (Guerra guerra ai palazzi e alle chiese, Odradek, 2003), sono rimasto sorpreso. Avevo ragione, ma anche torto.
In verità l’Inno era nato per un congresso del Partito Operaio. Addirittura – a fine Ottocento – era diventato un segno di identificazione: “era perseguitato con accanimento, ma lo si cantava, lo si suonava, lo si zufolava… Chi era colto, veniva condannato a 75 giorni di reclusione per il reato di istigazione a delinquere e incitamento all’odio”. Fin qui avevo ragione.
La musica dell’inno, però, era di un certo Amintore Galli, cattolico, monarchico, conservatore, specializzato in composizioni sacre. Lo aveva composto su un testo di Luigi Maria Persico come inno di un educandato retto dalle suore. Turati, che conosceva il Galli, scoprì che quella musica ben s’adattava al testo suo e se ne appropriò, nonostante le proteste del compositore.
Insomma la musica sulla quale tuttora si canta “Su fratelli, su compagne / su venite in fitta schiera”, era destinata ad accompagnare tutt’altro testo, “Tra le rose e le viole / anche il giglio ci sta bene” o qualcosa di molto simile.
Ne conseguiva che i preti e i cislini del mio paese, che facevano risuonare le note di Galli senza nulla cantare, non rubavano nulla, ma, senza neanche immaginarlo, riportavano quella musica nel suo alveo originario.
In verità l’Inno era nato per un congresso del Partito Operaio. Addirittura – a fine Ottocento – era diventato un segno di identificazione: “era perseguitato con accanimento, ma lo si cantava, lo si suonava, lo si zufolava… Chi era colto, veniva condannato a 75 giorni di reclusione per il reato di istigazione a delinquere e incitamento all’odio”. Fin qui avevo ragione.
La musica dell’inno, però, era di un certo Amintore Galli, cattolico, monarchico, conservatore, specializzato in composizioni sacre. Lo aveva composto su un testo di Luigi Maria Persico come inno di un educandato retto dalle suore. Turati, che conosceva il Galli, scoprì che quella musica ben s’adattava al testo suo e se ne appropriò, nonostante le proteste del compositore.
Insomma la musica sulla quale tuttora si canta “Su fratelli, su compagne / su venite in fitta schiera”, era destinata ad accompagnare tutt’altro testo, “Tra le rose e le viole / anche il giglio ci sta bene” o qualcosa di molto simile.
Ne conseguiva che i preti e i cislini del mio paese, che facevano risuonare le note di Galli senza nulla cantare, non rubavano nulla, ma, senza neanche immaginarlo, riportavano quella musica nel suo alveo originario.
Nota
Per il testo commentato dell’Inno dei Lavoratori vedi in questo stesso blog:
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