Su “L’ospite ingrato”, rivista on line Centro studi Franco Fortini è apparso più di due anni fa il testo che ho qui di seguito ridotto e sfrondato delle note. La ricerca è opera di due studiosi che io immagino giovani e che guardano come ad un esempio al gruppo di “Meridiana” (Pezzino, Lupo, Bevilacqua) e a tutti gli altri storici (Marino e Santino, per esempio) “che hanno fatto della lotta alla mafia un progetto di studio e un posizionamento critico”.
La loro analisi, assai accurata, si ferma agli anni dell’unificazione d’Italia. Dichiarano, alla fine dell’articolo, che proseguirà e annunciano le problematiche che intendono criticamente affrontare.
Ma di tale proseguimento non ho trovato traccia né nel sito del Centro Fortini né altrove nella Rete. Né ho notizia di un completamento del lavoro sul cartaceo. Il dubbio, un po’ angosciante, è che i due ricercatori non abbiano trovato finanziamenti di alcun tipo per il loro impegno e che siano stati costretti a procacciarsi da vivere coi “lavoretti”, interrompendo un percorso che a me sembrava assai promettente. (S.L.L.)
Il boss mafioso di Villalba Calogero Vizzini, detto Don Calò |
Prospettive della ricerca
La parola mafia indica un insieme complesso di fatti sociali e contiene grumi di significati a volte indistricabili, bandoli di stereotipi creati ad arte o sedimentatisi nella storia e nell’opinione. Associazione malandrinesca, stato d’animo o modo d’essere dei siciliani, essenza del carattere meridionale, banditismo organizzato, ipertrofia dell’io, piovra invincibile, setta segreta, stato nello stato. A dispetto di ciò che emerge confusamente dal dibattito pubblico contemporaneo non è vero che la presenza della mafia sia passata sempre sotto silenzio o che sia apparsa improvvisamente negli ultimi vent’anni a causa dello stragismo messo in atto dai corleonesi. Di mafia, al contrario, se ne parla e se ne scrive molto da quando il complesso di fenomeni riconducibili alla parola emerge, e cioè da quando la Destra storica si trova a dover gestire l’ordine e il disordine pubblico in quel viceregno borbonico che Garibaldi gli ha consegnato. Iniziamo dunque a circoscrivere la nostra indagine sia nel tempo che nello spazio chiarendo che ci occuperemo della mafia nella Sicilia immediatamente pre e post unitaria.
Questa scelta potrebbe essere percepita come un limite alla ricerca su un fenomeno così vasto, infatti la criminalità mafiosa interessa quattro regioni del nostro paese (Campania, Sicilia, Calabria e, sebbene in misura minore, la Puglia) nelle quali ha un ruolo di primo piano sia a livello economico che politico. Per di più, essa ha solide basi anche al centro, nella ristorazione, e al nord in settori come droga, edilizia,turismo. La mafia ha sviluppato nell’età contemporanea intrecci commerciali legati al traffico di stupefacenti e di armi a livello internazionale, i cui fatturati sono stimati in centinaia di milioni di euro. Inoltre i suoi frequenti intrecci con la politica nazionale, l’intrusione di questa nei pubblici appalti, nei fondi di finanziamento europei, nazionali e regionali, la sua pervasività nell’economia locale attraverso l’estorsione – per elencare solo alcune delle sue attività – sono stati dimostrati da una lunghissima serie di sentenze passate in giudicato. E’ però nostra convinzione che solo attraverso un lavoro di sottrazione e decostruzione storica si possa tentare di fare emergere la complessità del fenomeno che chiamiamo mafia nelle sue mutazioni e continuità. Non per esimerci da una critica del presente, ma per affinare strumenti teorici e di analisi.
La critica del presente è infatti il proposito primo di questa ricerca che intende tracciare un percorso storico della mafia siciliana attraverso i paradigmi interpretativi, oggetto di questo primo articolo, che sono stati messi in atto per spiegarla, analizzarla, combatterla ma anche favorirla. Questo lavoro vuole soprattutto porre delle domande sulle possibilità euristiche di tali paradigmi che guidano l’azione dei soggetti politici in campo: dall’antimafia istituzionale – con le commissioni parlamentari, la magistratura,le forze dell’ordine, la legge – all’antimafia sociale con i gruppi, le associazioni e le organizzazioni di movimento impegnate su questo fronte.
Per fare questo però riteniamo che sia necessario guardarsi indietro e analizzare le condizioni storiche di possibilità entro cui il fenomeno mafioso ha potuto assumere un ruolo politico, sociale ed economico. Il distanziamento temporaneo dall’oggi racchiude anche una posizione politica: prendere le distanze dalla visione della mafia come oggetto storico immutabile che si contrappone allo Stato dalla sua nascita ad oggi, una metastasi criminale che aggredisce le istituzioni democratiche. Per noi la mafia, al contrario, fa parte integrante del modo di governare in Sicilia, sebbene non si esaurisca in ciò, ed è proprio in rapporto ai mutati contesti storici che questo ruolo può emergere a pieno.
Sul metodo: un tentativo genealogico
Per l’analisi delle relazioni di potere che sottendono e attraversano il fenomeno mafioso sono necessari tre movimenti di inquadramento preliminari. Il primo è l’inquadramento geografico che deve cogliere le specificità facendo emergere le diversità dei territori d’indagine, evitando però riduzioni localistiche: queste infatti impedirebbero una ricerca che ha nella rete di luoghi, uomini e territori il suo schema interpretativo più fertile.
Il secondo, scelta l’area d’indagine, deve dirigersi verso l’analisi dei sistemi economici e procedere ad una mappatura delle risorse – la posta in gioco – e delle traiettorie di classi e frazioni di classi che, per il loro accaparramento, si muovono nei campi di lotta politici, sociali e culturali.
Il terzo, e forse prioritario in fase di analisi, deve puntare alla decostruzione dei discorsi di verità prodotti finora all’interno dei campi di lotta e più in particolare a partire dai primi usi della parola e del concetto di mafia, nei dispositivi giudiziari, nei discorsi pubblici, nelle arringhe degli avvocati e nelle testimonianze degli accusati, così come nei discorsi parlamentari, nella pubblicistica e in sede di ricerca scientifica.
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1.1 Il problema delle origini
“Quando come e perché l’insieme dei fatti definibili come mafia emerge dal complesso della storia siciliana?”. Si chiede Salvatore Lupo: ricercare il “mitico incipit” potrebbe essere rischioso poiché, essendo la mafia un fatto sociale oltre che criminale, non nasce all’improvviso, ma è il frutto di una serie di processi anche economici e politici storicamente determinati. E’ perciò fuorviante addurre motivazioni monocausali per spiegare la nascita di un fenomeno che ha nella mutabilità, nella capacità di trasformazione e di adattamento ai diversi contesti le sue peculiari caratteristiche. E’ questa una delle acquisizioni della recente storiografia di cui ci serviremo per tracciare la nostra storia. Senza perciò stabilire una data di nascita precisa, iniziamo col dire che le prime attestazioni di esistenza di associazioni criminali definibili come mafiose in Sicilia ed i primi usi della parola da parte delle autorità o nella pubblicistica si riscontrano a cavallo del periodo unitario: ed è questo il nostro punto di partenza. Già allora emerge ciò che Paolo Pezzino chiama il paradigma mafioso. Attraverso i rapporti dei procuratori prima borbonici e poi unitari e dalle prime inchieste parlamentari sull’ordine pubblico si tenta di definire il fenomeno, di negarne l’esistenza, di ridurlo a semplice criminalità o ad esasperazione del carattere siciliano, d’altra parte l’allora procuratore di Palermo Sangiorgi prova ad analizzarlo con una lucidità spesso maggiore di quella dei nostri tempi. Proprio da tale diversità di paradigmi ci sembra utile partire per procedere ad una ricerca genealogica che ci consenta di svelare gli effetti politici di tali discorsi.
Nel presentarli, dunque, vedremo emergere alcuni soggetti e motivi ricorrenti del contesto siciliano ottocentesco: l’eversione del sistema feudale e gli effetti sull’assetto proprietario, le continuità politiche di distribuzione del potere tra borbonici e “homines novi piemontesi”, l’emergere di una classe media tra proprietari e contadini e l’intreccio tra potere politico–militare e delinquenza che caratterizza le fasi rivoluzionarie e controrivoluzionarie.
Ci concentreremo, perciò, seguendo la lezione di Weber sui tipi ideali – in questo caso due soggetti del potere mafioso alla fine dell’ottocento – che ci guidino nella ricerca di quelle relazioni di potere che hanno caratterizzato il fenomeno mafioso in questa fase. Il gabelloto – e cioè l’affittuario di vaste proprietà, prima in mano ai grandi latifondisti baronali e ora spezzettate dalla graduale abolizione del feudalesimo, con il suo manipolo di campieri e soprastanti armati – e il compagno d’arme, strano miscuglio di delinquente e uomo d’ordine che caratterizza la gestione della sicurezza pubblica a cavallo dell’Unità.
Lo schema polare che presentiamo ha una validità semplicemente strumentale: esso non deve essere letto come uno schema interpretativo rigido. La presenza di questi due attori sociali, infatti, non esaurisce l’analisi del fenomeno mafioso che, al contrario, emergerà proprio dalla messa in discussione delle dicotomie classiche: città/campagna, feudalesimo/capitalismo, tradizionale/moderno. Questi sono macroprocessi storici all’interno dei quali stanno relazioni più complesse determinate oltre che del periodo storico, anche dal luogo geografico: Sicilia occidentale e orientale, interno e costa, porti, mercati, agrumeti, ex–latifondi, terre per il pascolo, campi destinati alla cerealicoltura. Può essere utile seguire il gabelloto o il campiere nelle loro ronde notturne tra i vasti aranceti della conca d’oro, osservarli deporre il fucile e trattare con i ladri di bestiame o imporre ai contadini dove comprare il legname o in quale mulino portare il raccolto. A partire da qui si possono comprendere alcune dinamiche di potere, certo nuove, ma solo se lette in un contesto di eversione della feudalità. Così come è nuova la veste che assumono il compagno d’arme o la guardia nazionale se si collocano in un contesto politico che vede la nascita di un solo potere legittimo: quello dello Stato Unitario.
1.2 Il paradigma di lungo periodo: La Spagna è l’anima dell’isola
Uno dei paradigmi che più ha condizionato i primi tentativi d’inquadramento del fenomeno mafioso, le cui implicazioni perdurano ancora in molte analisi giornalistiche, sociologiche, storiche e soprattutto politiche è il derivato della visione del meridione come area geopolitica arretrata, immobile rispetto alla Grande Storia. Economicamente sottosviluppata e fuori dai grandi circuiti commerciali, la Sicilia sarebbe stata incapace a governarsi perché immobilizzata dalle continue dominazioni. Da quella araba fino a quella borbonica passando per il lungo regno spagnolo che viene visto come uno dei principali responsabili della mancata modernizzazione economica e soprattutto civile e politica dell’isola.
A partire da questa visione della Sicilia si possono citare Vito Titone e il suo La società siciliana sotto gli spagnoli in cui la mafia viene vista come espressione dell’anima dell’isola e della sua razza che, sebbene intesa in senso storico e non biologico, non può che condividere un comune destino e modo di vivere. L’uso della violenza privata non sarebbe che l’estremizzazione di un carattere poco incline a cercare giustizia negli organi deputati al governo da sempre percepito come straniero e vessatore.
Un recente sostenitore, ben più critico e più discreto, di questo paradigma è Nicola Tranfaglia. Nel suo libro La mafia come metodo, tenta di astrarre dallo specifico siciliano e di proporre un modello interpretativo non tanto della mafia siciliana in sé, quanto di quelle relazioni storiche che produrrebbero il radicarsi di rapporti sociali e politici riconducibili al metodo mafioso. Lo studioso torinese crede di trovare uno dei nodi di tale metodo nella dominazione spagnola: in particolare a lui interessa «non tanto studiare lo stato spagnolo in astratto, quanto in rapporto con le classi dirigenti meridionali e cercare di cogliere il risultato di quel rapporto». Si potrebbero integrare queste parole dicendo che quel risultato andrebbe poi messo alla prova rispetto alle successive traiettorie degli attori, delle classi e dei gruppi sociali. L’attenzione va posta anche ai mutati contesti storici, per cercare eventuali trasformazioni ed evoluzioni senza però volere a tutti i costi individuare continuum di lungo periodo che irretirebbero la ricerca in semplici nessi causali lineari.
Una lettura che essenzializza e riduce la mafia a comportamento tipico ed estremo dei siciliani è quella del demopsicologo e grande etnologo siciliano Giuseppe Pitrè. Se non fosse che persino Luciano Leggio se n’è servito di fronte alle telecamere, per attribuirsi le doti del buon mafioso, definizioni come quella che segue verrebbero oggi prese con sufficienza. Per Pitrè infatti la mafia non è «setta né associazione, non ha regolamenti né statuti …il mafioso non è un ladro, non è un malandrino …la mafia è coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della propria forza individuale…. donde la insofferenza della superiorità e, peggio ancora, della prepotenza altrui».
Prima di ricavare alcuni degli elementi più significativi contenuti in questa definizione è bene aggiungere perché ancora negli anni cinquanta del novecento vi si farà ricorso. In Usi e costumi del popolo siciliano Pitrè ricostruiva il significato dei termini mafia, mafioso, precedente la rappresentazione del dramma dialettale I mafiusi di la Vicaria, nel 1863, che facendo riferimento ad un gruppo di detenuti –mafiosi,circoscriveva l’ambito di quella supercategoria originaria. Mafia era qualità, valenza, superiorità, grazia, un distillato di valori riferibile a uomini e donne che popolano un universo guardato con “simpatia” da un intellettuale romantico, cui è più caro il dato folklorico. Mafia come modo d’essere di classi subalterne ricomprese paternalisticamente in una cornice evoluzionistica che ne implica il superamento e il trapasso dei valori culturali. Questa prima elaborazione del significato delle parole lascia il fenomeno praticamente inspiegato. Ad essa ne segue una che fa riferimento “all’esagerata forza individuale e all’insofferenza della superiorità, nutrita del mito del brigante, superuomo popolaresco, dalle letture di intellettuali borghesi. Questa visione era funzionale alla negazione dell’esistenza di una struttura associativa violenta, già peraltro chiamata in causa da molti e della quale lo stesso Pitrè, durante il processo Palazzolo a Bologna è chiamato a rispondere. Qui l’etnologo si rifugia nella spiegazione etimologica, ribadisce il suo paternal–sicilianismo riducendo la mafia a cultura regionale e fa riferimento ad un quid imperscrutabile, all’impossibilità di limitare o vincere il fenomeno, in quanto l’identificazione fa di tutti i siciliani i difensori della mafia stessa.
Questa definizione, di cui s’innamorarono i sociologi per un lungo periodo, servì per spiegare psicologicamente fenomeni che risiedevano invece nella complessità politica e sociale. In definitiva risiedevano nella storia che forse poteva spiegare certe caratteristiche psicologiche anziché venirne spiegata, come ricorda Salvatore Romano in una delle prime trattazioni sulla mafia di ampio respiro. Al contempo contribuì all’oggettivazione dell’inesistenza della mafia come associazione “in se e per sé”, cui seguirà in certa misura, un allentamento della tensione antimafiosa negli apparati statali. È interessante a tal proposito la dichiarazione del ministro degli interni Scelba nel1949, accusato da Gaspare Pisciotta quale mandante della strage di Portella della Ginestra.
«Se passa una ragazza formosa un siciliano vi dirà che è una ragazza mafiosa, se un ragazzo è precoce vi dirà che è mafioso. Si parla della mafia condita in tutte le salse, ma signori colleghi mi pare che si esageri.»
Se questo paradigma nega la natura associativa e criminale del fenomeno, ponendo l’accento sullo “spirito della mafia”, ha però il merito di coglierne una peculiarità: l’aspetto socioculturale. A dispetto di una visione di acritico legalismo, che vede nell’uso del mezzo repressivo lo strumento principe per un’azione di contrasto, emerge qui l’importanza del radicamento sociale.
1.3 La mafia come sopravvivenza feudale
Emilio Sereni ne Il capitalismo nelle campagne afferma che se si guarda alla Sicilia post–unitaria ci si ritrova di fronte alla regione italiana in cui più forti sono le resistenze feudali e dove le leggi eversive della feudalità del 1812 erano state applicate non solo con grande ritardo rispetto al continente, ma anche con modalità che non avevano consentito una reale distribuzione di terre alla proprietà contadina che, anzi, con l’abolizione degli usi civici, si era ritrovata in condizioni persino peggiori. Era mancato inoltre quel processo di trasformazione capitalistica dei rapporti di produzione che aveva caratterizzato, con forme e gradualità diverse, il resto dell’Italia agricola.
Era emersa invece, a seguito della dissoluzione della proprietà latifondistica e delle terre demaniali, una frammentazione sociale generatrice di nuove classi; queste cercavano, con modalità e tattiche diverse, di intercettare le ricchezze nobiliari ed ecclesiastiche che andavano via via frantumandosi proprio in forza di quelle leggi e delle successive rivendicazioni: in particolare si forma una classe media, una borghesia agraria complessa, all’interno della quale si muovono figure sociali come quella del gabelloto, del campiere o del sovrastante, viste da Sereni come rappresentanti di una “borghesia abortita”.
Inserendosi come intermediario armato tra il capitale ed il lavoro, questa figura di affittuario e gendarme delle campagne consolida, spostandole su un piano più complesso di graduale autonomia da entrambi i poli, un sistema di relazioni economiche, sociali e politiche in cui prevalgono rapporti personali e una forte disuguaglianza di soggettività politiche. La differenza prima si può riscontrare tra chi era legittimato ad usare la forza e chi no: caratteristica questa non di un sistema politico in cui l’uso della violenza è monopolizzato dalla forza pubblica, quanto piuttosto di una società di ancien regime.
Secondo Renda lo specifico siciliano era rappresentato dal fatto che «la grande proprietà terriera non solo si era consolidata ed estesa per effetto dell’eversione dei beni dell’asse ecclesiastico e della perdurante usurpazione dei beni del demanio comunale, ma aveva anche accresciuto il beneficio della rendita fondiaria in misura proporzionalmente maggiore che nelle altre parti d’Italia. In sostanza, nell’isola, i vantaggi del progresso agrario erano stati quasi interamente assorbiti dai grandi proprietari, mediante il ricorso al sistematico aumento dei canoni di affitto e di prezzo della terra. Il meccanismo della costante rendita fondiaria aveva funzionato anche perché gli affittuari o gabelloti avevano trovato il modo di scaricare sulle spalle dei contadini i maggiori oneri contratti, modificando a proprio vantaggio e peggiorando i rapporti di compartecipazione e di piccolo subaffitto per ridurre il più possibile la quota parte del prodotto lasciato ai lavoratori».
Prima d’inquadrare la figura del gabelloto conviene presentare un sintetico quadro del potere dei baroni e della struttura del sistema feudale nel secolo che precede l’Unità. Leonardo Sciascia, nel suo Consiglio d’Egitto, testimonia attraverso le vicende dell’abate Vella – incaricato di tradurre dall’arabo antichissimi certificati di proprietà – il contesto storico della Sicilia settecentesca attraversata da fermenti rivoluzionari, in cui la proprietà terriera baronale era caratterizzata da una grande incertezza sui titoli in forza dei quali era stabilito l’assetto fondiario. Tracciare la storia dei diritti di proprietà, in base ai quali i baroni esercitavano i loro poteri, si scontrava con la mancanza di documentazione certa negli archivi di stato su investiture, diritti o usi civici. Ciò rendeva impossibile contestare le proprietà baronali o provare le usurpazioni. Inoltre la possibilità di alienare i propri terreni fino al settimo grado collaterale, (cioè la possibilità per i proprietari di concedere in beneficio le terre fino al settimo grado di parentela senza incorrere in obblighi fiscali), come aveva stabilito un concessione da parte di Federico II del 1289, completava il quadro dello strapotere baronale sulle terre della Sicilia centro occidentale.
Ultimo elemento che fa da cerniera con la nostra storia è il progressivo allontanamento da parte dei baroni dalle loro terre, motivato da una “corsa alla distinzione” che li induceva a vivere la città di Palermo gareggiando in lusso e prestigio col resto della classe nobiliare. Messe tra parentesi le necessità materiali, dunque, i baroni divengono assenteisti per cedere il loro posto agli emergenti della classe media cui affittavano le loro terre attraverso il sistema delle gabelle: questi borgesi che si affacciano sulla vita siciliana fanno il loro ingresso nella storia con il loro capitale di pratica violenta acquisita come esercito privato a difese della proprietà baronale e con qualcosa in più: la possibilità di entrare direttamente nell’economia terriera grazie alle leggi che nel 1812 iniziano ad abolire il sistema feudale. Dunque, in Sicilia l’eversione della feudalità fu applicata con ritardo e in maniera poco efficace proprio per il fortissimo potere acquisito dai baroni e dai loro nuovi affittuari: i gabelloti.
«Assai poche, invero, furono le terre vendute da qualche barone dissestato o assenteista, ed in gran parte esse andarono ad arrotondare o i latifondi di altri ex feudatari, o la proprietà di ricchi gabelloti, che s’erano arricchiti nell’industria delle grandi affittanze; la terra dunque mutava padrone, ma non si frazionava…» non consentendo la formazione della piccola e media proprietà contadina.
Nel latifondo della Sicilia centro occidentale si possono rintracciare, seguendo Catanzaro, cinque classi: i proprietari terrieri, i gabelloti, i “borgesi”, i contadini e i giornalieri agricoli.
I gabelloti erano la parte alta dei borgesi e venivano dai “gastaldi” delle ex tenute feudali o dal manutengolismo formatosi dai gruppi di briganti che praticavano sistematicamente l’abigeato e con i quali avevano trattenuto strettissimi rapporti anche quando, con il processo di commercializzazione delle terre, si erano arricchiti con i lavori di mediazione e le vendite dei cereali o delle greggi rubate o, ancora, attraverso l’usura. I gabelloti dunque prendevano in affitto uno o più fondi in cui contadini e giornalieri lavoravano in condizioni pessime sia a livello contrattuale che salariale. Per Sonnino questa eversione della feudalità «non fu né provocata né accompagnata né seguita da alcuna rivoluzione (almeno fino al movimento dei fasci siciliani ndr), da alcun movimento generale che mutasse d’un tratto le condizioni di fatto della società siciliana. Quella che era stata fino ad allora potenza legale, rimase come potenza o prepotenza di fatto, e il contadino, dichiarato cittadino dalla legge, rimase servo e oppresso».
I contadini della Sicilia centro occidentale erano infatti contraenti di due tipi di sistema contrattuale: la metaterìa e il terratico, due sistemi di conduzione della terra derivanti dal subaffitto dei gabelloti. Nella metaterìa la rendita in natura era proporzionata al raccolto mentre nel terratico al gabelloto spettava un quantitativo fisso. Il punto centrale è che veniva messa in opera una precarizzazione del lavoro contadino: uno stesso terreno veniva subaffittato di anno in anno a contadini diversi, per cui questi, da un lato non erano dei veri proprietari o mezzadri (legati alla terra dal fatto che dovevano prendersene cura con continuità), ma dall’altro non erano neanche dei salariati senza alcun rapporto con la terra, il che avrebbe posto le condizioni per una rivendicazione di classe in opposizione frontale al proprietario o al gabelloto.
I contadini risultano perciò schiacciati da tali condizioni e impossibilitati alla lotta: manca cioè la trasformazione dei rapporti di produzione da un lato e vi è uno iato tra l’introduzione dello stato di diritto che accompagna l’eversione della feudalità e la sua applicazione pratica nell’impedire l’esercizio della violenza privata. In altre parole: la competizione sociale, invece di giocarsi a livello verticale e di classe, si gioca a livello orizzontale tra borghesi acquisiti, gabelloti, classe media che, grazie all’eversione della feudalità, ha accesso all’acquisto, alla vendita e all’intermediazione dei terreni; parallelamente, anzi, proprio in forza di ciò, si apre un altro mercato, quello della violenza: prima appannaggio delle sole guardie armate dei baroni per la difesa delle loro terre. In particolare il mercato della violenza consente di fatto l’esercizio autonomo della stessa.
E’ proprio in questa autonomia che Franchetti vede la caratteristica dell’esercizio del potere mafioso, ed è importante questa distinzione tra il fatto e il diritto poiché solo così si capirà quel processo di democratizzazione della violenza di cui il politico toscano parlerà nella sua inchiesta privata sulle condizioni politiche ed economiche della Sicilia. Se infatti, prima dell’avvento di uno stato di diritto, l’esercizio della violenza da parte dei baroni e del loro esercito privato era legittima e, per quanto brutale, inquadrata in certe regole (l’auctoritas baronale), con i codici di legge centralizzati e l’abolizione del feudalesimo e dei diritti di nobiltà, coloro che esercitavano praticamente la violenza non dovevano più rendere conto ai baroni. Iniziava infatti un graduale processo di autonomia, che permetteva di esercitare la violenza contro avversari economici per l’acquisto di nuove terre o contro rivendicazioni contadine o per proteggersi dai furti di bestiame dalle bande di briganti autonome o legate ad altri gabelloti, senza che l’autorità centrale potesse intervenire per la strettissima rete di complicità che si stava creando – che analizzeremo in particolare quando parleremo della guardia nazionale e dei compagni d’arme – e che impediva un reale intervento pubblico.
Emerge dunque uno schema teorico che vede il gabelloto come detentore oltre che della violenza – illegittima in punto di diritto ma legittimata di fatto – di un capitale economico e simbolico che lo sostituisce al barone nella gerarchia sociale. Seguendo poi la sua carriera, lo vediamo anche come esercente di miniere di zolfo, come sindaco di paese o di città e spesso come ex Guardia Nazionale: il tutto, a volte, riunito in una singola persona. Come fa notare Lupo, da questa figura si dipanano i fili che faranno dell’organizzazione un network anche verso il parlamento nazionale nei cui banchi siedono protetti e protettori, fortemente legati alla terra ed alle zolfare, che rappresentano uno dei nodi di quella rete di relazioni che contraddistinguerà il potere mafioso.
Alla luce di ciò possiamo capire meglio quel che dirà nel 1875 Diego Tajani, ex procuratore del Re a Palermo e in seguito uomo di punta della sinistra, al parlamento unitario in un’audizione alla camera dei deputati: «La mafia che esiste in Sicilia non è invincibile o pericolosa di per sé, ma perché è strumento di governo locale».
Vediamo dunque costruirsi una fitta ragnatela che connette la politica locale a quella nazionale e che hanno nel particolare processo di eversione della feudalità uno dei fili principali sulla soglia del secolo XIX. Più precisamente, nei rapporti di forza che intorno ad esso si creano a partire dalle condizioni materiali di possibilità di classi e frazioni di classi da un lato e dalla disponibilità all’uso della violenza come modo di affermazione economica e sociale dall’altro.
1.4 Banditismo sociale? Rivoluzionari e mafiosi nel Risorgimento
La chiave di lettura scelta da alcuni storici e sociologi si rivolge non più, o non solo, alle resistenze feudali o arcaiche di una società considerata tradizionale, ma alle trasformazioni socioeconomiche di cui in Sicilia la mafia sarebbe il riflesso violento.
E.J. Hobsbawm nel suo studio I ribelli, considera la mafia, almeno in un primo tempo, come sviluppo complesso del banditismo sociale; più in particolare la mafia rifletterebbe il trasferimento del potere dalla classe feudale al ceto medio rurale, in una fase della nascita del capitalismo agrario: la sua spina dorsale la si può ritrovare nell’esercito dei gabelloti e dei campieri. Tuttavia lo storico inglese descrive, in riferimento alla prima metà dell’Ottocento, una situazione sociale fluida in cui trovavano spazio diverse istanze: dalla difesa della società alla minaccia nei confronti del suo modo tradizionale di vita, dalle aspirazioni delle nuove classi fino agli interessi e alle ambizioni personali. Successivamente alcuni fattori metteranno un po’ d’ordine in questo universo di protesta sociale: il primo di essi è individuato nella nascita dell’associazionismo contadino e operaio:l’antagonismo sociale qui diventa coscienza di classe. Per Hobsbawm dunque il sorgere dei rapporti capitalistici, se in un primo momento può aver saldato tenebrosamente istanze diversissime, per il suo scompaginare i rapporti di produzione precedenti, nel suo consolidarsi produce una frattura fra mafia e classi subalterne. In secondo luogo lo storico registra una saldatura d’interessi tra i nuovi gruppi dominanti – gabellotto e ceti cittadini – e la borghesia piemontese. Come corollario Hobsbawm mette in luce il fatto che, con l’allargamento del suffragio, la mafia ebbe la possibilità di esercitare un forte potere di condizionamento nei parlamenti romani in formazione, imponendo i propri candidati. Dopo l’Unità dunque, e solo allora, la mafia si integrerebbe col blocco di potere nazionale.
Se come abbiamo visto Hobsbawm colloca il fenomeno mafioso all’interno del banditismo sociale, riscontrabile nei secolo XVIII e XIX, Romano ne ricava invece le discontinuità. Il bandito si farebbe giustizia da sé, ponendosi contro la legge, in nome dei dimenticati dalla Storia, in un contesto in cui c’è poco da scegliere, fatale alternativa di servo o bandito. Il mafioso apparirebbe al contrario come un pacificatore dei conflitti: il mediatore tra le parti in veste di rappresentante della legge. Questa semplicistica opposizione non esclude una vicinanza di valori culturali tra dai due tipi o la possibilità che tra i primi si riscontrino milizie armate alle dipendenze di aristocratici, quali sono i primi nel loro farsi. Suggerisce, invece un altro sostrato del fenomeno, che si compone dei tanti corpi polizieschi, pubblici e privati, quali compagni d’arme, Guardia Nazionale, squadre private che appaiono come garanti dell’ordine.
Sarà all’interno di questi apparati, in cui alta è la disponibilità dei mezzi violenti, che vedremo realizzarsi quel processo di graduale autonomia attraverso il quale queste figure costruiranno le loro carriere, tesseranno i loro rapporti, in funzione di quel raggiungimento di posizioni di forza, in campo politico ed economico, che ha la sua peculiarità proprio nell’uso di tale violenza, come strumento di avanzamento sociale.
1.5 La mancata rivoluzione democratica: sotto la lente di Romano
Rintracciare gli antecedenti strutturali del fenomeno mafioso, il brodo di coltura della nostra organizzazione vuol dire connettere soggetti e avvenimenti precisi, fare luce sulle rivoluzioni del XIX secolo, distinguendone le anime, circoscrivere il raggio d’azione delle organizzazioni poliziesche, private e pseudo pubbliche, quali Guardia Nazionale, Compagnie d’arme e organismi estemporanei di difesa dell’ordine. Prima di far ciò è bene ricostruire sinteticamente la genealogia delle Compagnie d’arme e il contesto cinquecentesco nel quale agiscono,attingendo allo studio di Romano.
Il passaggio dal potere assoluto del baronato alla monarchia, che tenta di limitarne i privilegi, comporta la trasformazione dei gruppi di armati addetti alle funzioni di giustizia e ordine pubblico. Se prima questi ultimi erano al servizio dei signori feudali, ora compongono un corpo di polizia regia. La costituzione nel 1543 del corpo dei compagni d’arme esemplifica questo passaggio. Si tratta di un gruppo semivolontario di armati addetto al mantenimento dell’ordine, specie nelle campagne infestate da briganti, delinquenti e vagabondi che, catturati andavano consegnati alla polizia regia, che in cambio dei suoi servigi riceve protezione e “man libera” dalla monarchia.
«Quel corpo che era praticamente nato da un compromesso tra la giustizia regia e un certo strato di pregiudicati e delinquenti delle campagne, non mancò di agire più spesso in una funzione di repressione nei riguardi delle manifestazioni minori, e di compromesso o sostituzione nei riguardi di coloro che erano abbastanza potenti. Poco a poco per opera dei compagni d’arme la “plebe dei ladri” fu sopraffatta, e sopra di essa,in una posizione di privilegio venne a costituirsi questa nuova “aristocrazia” delinquentesca in funzione di corpo di polizia ausiliaria ».
Alle dipendenze del compagno viene a formarsi ben presto una fitta rete di affiliati, delinquenti minori, pregiudicati che andavano ad esercitare il controllo dei territori che spesso conoscevano direttamente, restando impuniti nell’esercizio del proprio potere nelle zone non affidate loro. Compagni e affiliati fanno ricorso ad accordi extralegali nei casi di furto e ruberie a discapito di poveri contadini o nobili potenti; si afferma il sistema delle componende che consacra i primi come mediatori degli “accordi tra amici” realizzati in un universo parallelo al di fuori della legge di cui pubblicamente appaiono i depositari e subordinato all’esercizio autonomo della violenza. L’attitudine a fare da pacieri, sarà una costante di altre figure coinvolte nella ricerca dei protomafiosi: gabelloti, campieri, guardie municipali. In un clima profondamente segnato dall’assenza di metodi legali e dall’uso sistematico del potere di pochi per il risanamento dei conti di tutti, le plebi incorporano quei metodi che declinano in altri modi, ricorrendo ad insurrezioni di piazza (la rivolta di Giuseppe D’Alesi del 1647 ne è un esempio) o seguendo la via della macchia in cui il singolo può farsi giustizia da sé. La rivendicazione popolare ha una sua collocazione al seguito delle maestranze, corporazioni di arti e mestieri caratterizzate da forte spirito associativo e tese ad inserirsi politicamente nel contrasto tra baronaggio e monarchia. Nella richiesta di partecipazione al potere politico sono ostacolati dai baroni, che tentano invano di scioglierne i gruppi e si arrogano il diritto di rivederne gli statuti. Faremo riferimento soltanto all’episodio del 1773, la rivolta popolare capeggiata dalle corporazioni, dalla quale emergono aspetti fondamentali alla comprensione delle rivoluzioni successive, quali ad esempio, la «componente sociale popolare di quella mancata rivoluzione democratica, nel cui tronco si innesteranno i diversi coefficienti che daranno vita e radici storiche al complesso fenomeno della mafia».
Per arginare il potere delle guardie di polizia cittadina, corrotte e invise al popolo e assumere un ruolo decisionale nella politica cittadina le maestranze chiedono di poter decidere chi debba ricoprire la carica di Pretore, il magistrato a capo dei Consoli, figure di riferimento delle varie arti. Il mancato ottenimento della richiesta determina l’insurrezione che finisce con la cacciata del Vicerè e la chiusura delle mura di Palermo. Sempre nello stesso anno, le corporazioni avevano ottenuto dal sovrano il consenso per la formazione di Ronde, polizia armata con il compito di difendere l’ordine pubblico che avrà vita breve, ma conseguenze nel panorama rivoluzionario seguente. Questo episodio rivela la consistenza della componente popolare, la sua forza, ora sfruttata dalla monarchia in funzione antiaristocratica, ora osteggiata per il timore di una perdita di controllo. Anche se le maestranze saranno ufficialmente sciolte nel 1822 è possibile rintracciare una continuità storica tra queste e le squadre armate popolari, sorte spontaneamente nel ‘48.
«Queste squadre popolari rappresentavano in qualche modo i successori storici,gli eredi storici,per così dire delle formazioni armate delle corporazioni ma avevano una base sociale più larga,in quanto ne facevano parte,oltre che gli artigiani e la gente proveniente dalle campagne,anche gli strati inferiori del sottoproletariato urbano,e vale a dire una folla mista di uomini donne e ragazze degli strati poveri della città».
1.6 Il 1848
Nel suo La tradizione rivoluzionaria siciliana, Pezzino inquadra le vicende del periodo rivoluzionario risorgimentale attorno al problema del controllo di una nuova organizzazione statale.
«La lotta politica e rivoluzionaria attorno alla costruzione dello Stato avveniva in un quadro post –feudale in cui gli elementi di movimento ancora dovevano agglutinarsi intorno a punti di equilibrio e di aggregazione non precaria e l’intera società isolana era attraversata da fermenti sociali e da imponenti fenomeni di mobilità che accompagnavano la caduta di vecchie egemonie, l’ascesa di nuovi ceti, la riconferma di posizioni di preminenza, ma su basi nuove: un processo nel quale, per la prima volta si fa la prima “sconvolgente esperienza di un movimento popolare di massa».
Attorno alle risorse strappate al sistema feudale, alla commercializzazione delle terre demaniali, si condensano le forze in lotta, non inquadrabili nella dicotomia borghesi–contadini (cui seguirebbe logicamente Guardia nazionale –squadre), sulla quale invece pare concentrarsi Romano, nel tentativo di escludere qualsiasi possibilità di lettura del fenomeno mafioso all’interno delle organizzazioni armate popolari. Taluni, tra cui lo stesso Pezzino tendono a sottolineare come i luoghi di provenienza delle squadre siano gli stessi dell’irradiazione del fenomeno mafioso, mentre Romano, concentrandosi maggiormente sulle analogie tra formazioni armate siciliane e guerriglia antifrancese in Spagna o antinapoleonica in Russia afferma quanto segue: «La correlazione storica tra movimento popolare rivoluzionario e mafia, tra le squadre popolari e le formazioni mafiose del periodo seguente al 1860, al contrario non è da ricercare nel fatto che in Sicilia, a differenza che in altre parti d’Italia, il movimento antiassolutistico e antiborbonico si sviluppò attraverso un esteso fermento rivoluzionario popolare…ma per il modo alquanto brutale,inadeguato,con il quale quel movimento venne soffocato…».
Tornando alla specificità del '48, molti sono i protagonisti. I detenuti delle carceri palermitane, i vari corpi di polizia addetti all’ordine pubblico ed infine il parlamento che, nonostante la sua scelta di legislazione eccezionale, di fatto, non riesce a gestire il conflitto né a contenere le squadre.
Queste si compongono prevalentemente di contadini e artigiani alle dipendenze di capipopolo, cui le autorità rivoluzionarie fanno sistematicamente ricorso a causa della loro inefficienza militare. Presenti anche nella rivoluzione del ‘20 –‘21 come in quella del ‘60, sempre maggiore sarà, tuttavia, il controllo da parte delle autorità rivoluzionarie che ben presto se ne disferanno.
E’ il popolo palermitano, ancora inquadrato nelle corporazioni, che insorge per primo: a questo si uniscono i detenuti, le squadre mobilitate nei paesi vicini. Alla questione demaniale cui le squadre davano la risposta più istintiva, rivendicando quasi un diritto alla vita delle classi subalterne, si uniscono le ragioni dei capipopolo più arditi, il conflitto tra le parti politiche.
“Le squadre disponevano di una forza potenziale che poteva spingere i più arditi a progettare ruoli politici autonomi”. Parecchi furono i tentativi di arginare il potere delle squadre, dall’ordine di scioglimento e smobilitazione, alle promesse di ricompense per quanti avessero abbandonato la lotta. Di fronte alla crescente autonomia conquistata sul campo dai capipopolo le autorità non scelsero la mera repressione, ma “si preferì mettere in atto un inserimento progressivo degli elementi delle squadre in altri corpi militari”, i pensionisti, le legioni di sicurezza, le guardie municipali. Si delineò quella che Romano definisce come “duplice linea di resistenza armata e di repressione” dei proprietari siciliani nei confronti di un così vasto e potente movimento popolare, esercitata attraverso la Guardia Nazionale, che tutelava gli interessi di classe e le squadre di fiducia personale (o controsquadre), create all’occorrenza per difendere la proprietà del singolo ed esercitare una funzione di repressione sulle squadre. Un pullulare di organizzazioni poliziesche caratterizzate dall’uso privato della violenza che si contendevano il primato nell’assenza di un organismo istituzionale realmente pubblico. Il conflitto tra Guardia nazionale e squadre si configura dunque come conflitto politico e terreno di rivendicazione dell’uso della violenza,in un contesto fortemente minato dalla delinquenza che si tenta di fronteggiare con la ricostituzione delle Compagnie d’arme (8 febbraio dello stesso anno). Al “trionfo del brigantaggio impunito”, all’elenco di furti, saccheggi, omicidi non si rispose con una strategia istituzionale, ma con azioni violente rivolte a singoli delinquenti e con veri e propri massacri e rastrellamenti, con la creazione di ulteriori apparati polizieschi in cui far confluire ex carcerati o con leggi eccezionali mai applicate.
Fermiamo lo sguardo su queste immagini che vedono il profilarsi di un incontro: quello fra la mafia e lo stato unitario. Due termini di una relazione complessa che sarebbe sbagliato porre in pura opposizione. L’apparato repressivo messo in atto dalla destra storica ha trovato i suoi esecutori anche in quella delinquenza organizzata che diceva di voler combattere attraverso le leggi speciali; e sono proprio alcuni degli uomini che si trovano a gestire, in alcune fasi, l’ordine pubblico ad accorgersi di quella che, con un eufemismo possiamo definire contraddizione, ma che appare sempre più chiaramente come una reciproca composizione d’interessi. Non si vuole affermare qui, semplicisticamente, che la mafia assume il ruolo di gendarme di stato contro le opposizioni o a protezione degli interessi della borghesia in ascesa, anche se ciò non è estraneo alla sua azione in determinati periodi storici. Ciò che proponiamo in conclusione è invece una interrogazione critica dei rapporti fra mafia ed istituzioni a partire dalle riflessioni di Franchetti che apriranno il secondo articolo. Se vogliamo rinunciare ad ipotesi teoriche di gerarchia unilaterale tra i due termini del discorso, troviamo però assai arido il paradigma contrario e cioè quello della mafia come antistato. Saranno dunque questi rapporti ad essere messi in discussione: cercheremo di indagare più nello specifico le carriere di coloro che abbiamo individuato come le figure in ascesa e che abbiamo cercato di delineare finora.
***
Nei prossimi interventi analizzeremo più nello specifico i vari paradigmi, presenteremo i contributi antropologici di Blok e degli Schneider; il paradigma dell’ibridazione sociale di Raimondo Catanzaro e le ricerche storico–politiche di Umberto Santino, e cercheremo per quanto possibile di verificarne le possibilità euristiche. Proseguiremo poi parallelamente con la storia della mafia analizzandone le caratteristiche dal periodo post–unitario fino a quello Giolittiano, nel terzo articolo procederemo con la mafia durante il fascismo. Il quarto e il quinto saranno dedicati al fenomeno mafioso durante la Repubblica.
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N. Tranfaglia, Il mezzogiorno e le sue “mafie”: una risposta, in «Meridiana» n. 15, pp. 269-77
[2 aprile 2009]
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