17.1.12

Al tempo del vicerè Caracciolo. Racalmuto contro Canicattì (Leonardo Sciascia)

Riprendo qui, con titolo leggermente diverso per concentrare l'attenzione sui nostri paesi, uno scritto di Leonardo Sciascia per "L'Ora" di Palermo. (S.L.L.)

Casanova, Padre Elia e l'aria natìa
Nel disordine delle mie letture c’è spesso la direttrice di una piccola, tenue fatalità: e così in questi giorni, in cui mi è capitato di leggere, subito dopo il quinto volume delle Memorie di Casanova, ora uscito da Mondadori, un libretto scritto da un mio concittadino a gloria di un padre Elia Lauricella morto nel 1780 in odore di santità.
Non che nell’immacolata vita di padre Elia ci sia qualcosa che possa minimamente far pensare a Casanova, eccezion fatta per il meretricio che Casanova particolarmente frequentava e padre Elia particolarmente combatteva. L’unico rapporto tra loro è costituito (per me) da don Domenico Caracciolo, ambasciatore del Regno di Napoli a Londra nel periodo in cui vi arrivò Casanova e viceré di Sicilia negli anni in cui tra due paesi vicini, Canicattì e Racalmuto, si svolse aspra contesa per il possesso dei resti mortali di padre Elia. Per cui nella immaginazione, automaticamente, senza malizia se non forse a livello dell’inconscio, è venuto a comporsi un quadro abbastanza curioso: il Caracciolo in mezzo, con quella grinta che ha nel ritratto della sala dei viceré, a palazzo dei Normanni; e da un lato padre Elia, con una grinta non meno severa della sua e anzi addirittura disgustata, che guarda con la coda dell’occhio il gruppo che sta dall’altro lato: quelle cinque ragazze di Hannover che languidamente circondano il cavaliere di Seingalt che, a suo dire, se le era passate tutte e cinque, trionfalmente riuscendo là dove il marchese Caracciolo era rimasto scornato.
Non che il Casanova meni esplicitamente vanto del suo trionfo e del fallimento del marchese: nutre per Caracciolo stima e rispetto e non disapprova per niente il fatto che abbia rifiutato di aiutare le ragazze di Hannover che a loro volta gli rifiutavano le grazie. Quando le ragazze gli confidarono che milord Baltimore, il marchese Caracciolo e milord Pembrock non hanno pietà di loro perché le considerano delle fanatiche, Casanova domanda: “Vale a dire che vi trovano amabili e pretendono che vi dobbiate prestare a spegnere i desideri che loro ispirate, e vi rifiutano il loro denaro perché, senza alcuna pietà, non gli volete concedere nessuna compiacenza. E’ questo?”. Le ragazze rispondono che le cose stanno precisamente così. E Casanova risponde, condensando in poche righe un trattato di morale libertina: “Io la penso come loro. Vi abbandoniamo ai vostri doveri. Il nostro è quello di avere cura del nostro denaro per mantenere le passioni le quali, mentre ci fanno guerra, parimenti ci procurano momenti felici. Noi non ci preoccupiamo né di avere la reputazione di esseri virtuosi né di pagare le belle che ci ammaliano con le loro grazie per poi farci languire. Oso dirvi che in questo momento la vostra disgrazia è quella di essere tutte graziose. Trovereste facilmente venti ghinee se foste brutte. Ve le darei io stesso perché allora non mi vedrei fatto segno a due critiche sanguinose. Non si dirà che ho fatto questa buona opera schiavo della mia propensione alla galanteria e neppure si potrà dire che vi ho aiutato solo sperando di ottenere quello che, col vostro sistema, non otterrò mai”.
E si noti il “noi” di Casanova: ha subito fiutato che il Caracciolo e gli altri due gentiluomini che attentano alla virtù delle hannoveresi sono almeno in fatto di donne, della sua stessa pasta. E per quel che sappiamo di Caracciolo, non si sbagliava.
Vero è che precedentemente lo aveva conosciuto a Torino, ma forse solo occasionalmente, di sfuggita: tanto vero che nelle Memorie, nella parte che riguarda il soggiorno a Torino, l’incontro non è registrato. Lo definisce “amabilissimo”; di “spirito”; e ad un certo punto riconosce che di saggezza il marchese ne aveva un po’ più di lui: “Il marchese Caracciolo aveva avuto ragione, a dirmi che avevo commesso una sciocca buona azione”; la quale buona azione era stata quella di aiutare una delle ragazze a riunirsi al suo amante.
Qualche tempo dopo, Casanova e Caracciolo si incontrano di nuovo: a Spa, dove il marchese, come ha scoperto il casanovista Ilges, alloggiava nell’albergo “Corte di Prussia”. E qui il Casanova più ampiamente tesse le lodi del Caracciolo – “un uomo veramente intelligente, generoso, umano, comprensivo” – e racconta che col suo “felice carattere” il marchese aveva fatto la fortuna di un avventuriero: garantì, con ridevole falsità, del nome e della nobiltà di costui a una ricca cinquantenne, vedova inglese, che se lo sposò.
Ora c’è da immaginare questo marchese Caracciolo, sul cui carattere e sulle cui idee concordano le testimonianze di Casanova, di Alfieri, di Marmontel, del Villabianca; c’è da immaginarlo davanti al caso delle spoglie di padre Elia Lauricella, contese da Racalmuto, che al sant’uomo aveva dato i natali, e da Canicattì, che ne aveva raccolto l’ultimo respiro. Ma sapeva l’arte di governare e si guardò bene dal mandare al diavolo i racalmutesi e i canicattinesi insieme, come per idee e temperamento sarebbe stato portato a fare.
Ordinò perciò alla corte capitaniate di Canicattì di esporre le ragioni per cui la salma non era stata restituita a Racalmuto e successivamente, o perché il capitano di giustizia non rispose o perché rispose con deboli ragioni, ordinò la restituzione. Ma, dice uno storico locale, prevenuto il 27 luglio 1785 “l’ordine del viceré di consegnare a Racalmuto la salma del reverendo Lauricella, gli officiali e popolo di quella si opposero, e minacciarono una bella ribellione, sicché l’ordine non ebbe alcun effetto”; ed un altro storico precisa: “I canicattinesi insorsero e, con i giurati alla testa, impedirono che si eseguisse l’ordine del viceré che, per sedare gli animi, fu costretto ad inviare sul luogo un commissario regio”. Il quale dovette certo avere precise istruzioni di temporeggiare, di sopire: e ci riuscì a tal punto che per la contesa di nuovo i canicattinesi si sollevarono a tumulto, costringendo alla fuga i racalmutesi che con autorizzazione del prefetto erano andati a prelevare la salma. Nell’aldilà, don Domenico Caracciolo avrà sogghignato dei siciliani e un po’ anche di se stesso: poiché centocinquanta anni non erano bastati a far diventare i siciliani come lui voleva farli diventare nello spazio del suo viceregno.
Ma quest’anno, finalmente, l’annosa questione è stata risolta: i racalmutesi hanno avuto le sacre ossa di padre Elia senza che i canicattinesi muovessero un dito per trattenersele. E anzi un cittadino di Canicattì ha commentato l’avvenimento in un modo che il racalmutese padre Morreale, autore del libretto su padre Elia, dice benigno e gradito ma che a noi pare degno di incontrare l’approvazione del marchese Caracciolo: “Diamo ai racalmutesi il corpo di padre Elia: dopo parecchi anni che è rimasto qui non ha più operato miracoli; li potrà opere nel suo paese”. Quasi una questione di aria natia, quale consigliano i medici in certi casi di esaurimento.

(“L’Ora”, 4 dicembre 1965)

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