L’articolo che segue, a mia firma, è stato pubblicato come “battaglia delle idee” su “micropolis” del 27 luglio, quando la soppressione delle feste dell’Italia laica e socialista apparteneva ancora al campo dei rumores. Pare che l’accorpamento (così si esprime il governo degli eufemisti) sia stato incardinato. Spero in qualche forte reazione di sinistra, ma temo sia speranza mal riposta. (S.L.L.)
Pochi conoscono la Nineta del Verzee del Porta: vuoi per il milanese stretto, vuoi per l’argomento scabroso raramente trova posto nelle antologie. Eppure non manca di bellezze. Il finale per esempio: nel racconto della prostituta che del poemetto è protagonista, il tajapioeucc (“tagliapidocchi”, cioè barbiere) che l’ha sedotta, sfruttata e spogliata del banco di pescivendola e d’ogni altro bene, minaccia il suicidio per sottrarle l’unica collana rimastale. Ninetta va lei stessa a prendere il gioiello dal canterano e glielo consegna: “Ciappa antecrist, /deggià ch’eet mangiaa il rest, mangia anca quist” (“Piglia anticristo, / giacché hai mangiato il resto, mangia anche questo”).
Di questo “luogo” letterario mi sono rammentato, leggendo dell’intento governativo di sopprimere 25 aprile, Primo maggio e 2 giugno per la “crescita”. Dopo essersi mangiati i contratti, i diritti e le tutele del lavoro articolo 18 compreso, le pensioni di anzianità, la gestione pubblica e sociale di beni e servizi, dopo aver smantellato il servizio sanitario nazionale e demolito la scuola di tutti, i “tecnici” puntano ai simboli dell’Italia operaia, laica e socialista per aggiungere l’umiliazione alla sconfitta.
Il provvedimento, in effetti, avrebbe una scarsissima incidenza economica e l’accanimento trova ragione solo nell’odio di classe, nella volontà di fare piazza pulita della memoria del movimento operaio, della sua funzione democratica e civilizzatrice: quelle tre feste sono indigeste alla destra borghese di cui Monti e il suo governo rappresentano l’eredità e l’incarnazione, quella che tentò di fermare con il fascismo l’emancipazione dei lavoratori e sostenne finché poté la monarchia sabauda. I tecnici, peraltro, pensano di riuscire dove Berlusconi fallì, bloccato dagli albergatori: nel 2013 giovedì 25 aprile e mercoledì primo maggio male si prestano ai ponti, il 2 giugno è addirittura domenica. Unica reazione, finora, quella dell’Anpi, accorata: “Imponete sacrifici, mettete la patrimoniale se necessario, ma non toccate quelle date”. La patrimoniale? Figurarsi!
La difesa delle feste è resa più difficile dallo svuotamento semantico che hanno subito. Il 2 giugno è ricorrenza sterilizzata fin dall’inizio da una esibizione di forza militare senza sintonia alcuna con lo “spirito repubblicano”, la parata a cui – a differenza di altri più moderati presidenti – l’attuale capo dello Stato (e dell’Esercito) non ha saputo rinunciare neanche dopo un terremoto. La celebrazione ufficiale del 25 aprile, sottotono al tempo del regime democristiano, negli anni sessanta e settanta divenne pretesto per accordi tra la sinistra parlamentare e la Dc, ma le piazze di sinistra se ne riappropriarono per opporsi alla strategia della tensione e ai conati di golpe. L’ultimo 25 aprile significativo fu quello dell’anno 94, il primo dell’era Berlusconi: centinaia di migliaia, a Milano, sotto la pioggia scrosciante, convocati dal “manifesto”. Uno snaturamento, infine, ha colpito la più antica e (da un punto di vista classista) importante delle tre feste, il Primo Maggio. Dopo l’instaurazione del regime fascista, la sua memoria fu conservata con gravi rischi: cravatte rosse da esibire in piazza, braccia incrociate per qualche minuto in alcune fabbriche, fermate nel lavoro dei campi. Manifestazioni episodiche e minoritarie, tali tuttavia da affermare una continuità. Negli anni intorno al 70, le manifestazioni unitarie del Primo maggio accompagnavano importanti conquiste: lo statuto del Lavoratori, il punto unico di scala mobile, l’equo canone, il servizio sanitario nazionale. Adesso tutto s’è ridotto ad una sorta di festival mediatico dell’industria musicale, un simulacro della festa dei lavoratori.
Le commemorazioni riescono solo se il passato che si ricorda viene reso significativo dall’impegno nel presente. Ne sono testimonianza le giornate della memoria istituite nella Seconda Repubblica; il ricordo dell’Olocausto e quello, più discutibile, delle foibe sollecitano una partecipazione poco numerosa e generalmente banalizzata. L’unica giornata della memoria che funziona è quella non ufficiale che Libera fa ogni anno delle vittime di mafia intorno al 21 marzo, ove la celebrazione dei martiri dell’antimafia si accompagna al sostegno alle cooperative nate nelle terre confiscate ai boss, spesso impiantate in ambienti ostili e sottoposte a pesanti intimidazioni. L’oggi restituisce senso alla commemorazione. E’ una lezione che dovremo ricordare, sia che nel caso che si riesca a salvare le nostre feste dall’ingordigia ideologica di Monti, sia nel caso che si debba lottare a lungo per riconquistarle.
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