Nell’agosto del 1991 “il manifesto” dedicò le sue pagine speciali per l’estate alle invenzioni che avevano cambiato la vita nel Novecento. Il titolo della serie era Un secolo in pezzi. L’ultimo degli articoli fu dedicato al “foglio Elettronico”, da Visicalc ad Excel, ed alla sua ideazione e prima realizzazione da parte di Dan Brik e Bob Frankston. Fu scritto da un grande studioso della materia, collaboratorfe storico del quotidiano comunista, il mai abbastanza compianto Franco Carlini da Genova. Quello che segue è l’incipit dell’articolo, che descrive l’impasse nell’utilizzazione del computer, prima della grande idea, di Brik appunto, di “unire l’immediatezza di un elaboratore di testi con le operazioni numeriche”. L’articolo – come tutti quelli della serie – entrò in un volume della “manifesto libri”. (S.L.L.)
Grande imitatore, il computer: nel senso che quasi tutti i suoi programmi applicativi, che lanciamo dalla tastiera e che vediamo sul video, sono repliche elettroniche di oggetti della vita quotidiana: un database emula le schede, i cassetti e gli armadi di un archivio cartaceo: un word processor simula la scrittura a mano o con macchina da scrivere: un sistema di prenotazioni aeree sostituisce un banale registro dove si segnano dei nomi di fianco a ogni sedile di ogni volo.
Anche i nuovissimi «ipertesti», altro non sono che la versione informatica di un'enciclopedia con rimandi da una voce all'altra: la consultazione è più rapida, ma il concetto è lo stesso. E persino il mondo delle «realtà virtuali» (ma sarebbe meglio chiamarle «artificiali») è popolato di repliche di cose fisiche ben note: magari un simulacro della propria mano, o del proprio corpo: nonché panorami, scenari, oggetti da afferrare e muovere. Non per caso, la prima fase dell'informatica è stata chiamata e tuttora la chiamano “meccanizzazione”. Il termine vuole richiamare, per analogia, il processo avvenuto con la rivoluzione industriale, quando molto del lavoro umano venne sostituito da macchine.
Verrebbe quasi da dire che la stretta finalizzazione dei computer alla pratica ne ha finora largamente inibito le possibilità inventive. Specialmente nell'automazione dei lavori di ufficio, dove l'enorme flessibilità degli elaboratori, macchine general purpouse per definizione, viene usata, quasi sempre, per riprodurre fin nei minimi dettagli l'organizzazione del lavoro esistente. Anziché utilizzare le nuove possibilità per cambiare le procedure del lavoro, le si piega invece ai vecchi lavori e alle vecchie divisioni dei lavori. Così le pratiche di un ufficio continuano a viaggiare da una scrivania a un'altra, come sempre: l'unica differenza è che non ci sono le vaschette della posta in uscita e della posta in arrivo, ma due cassetti software che svolgono le stesse funzioni sullo schermo-scrivania.
Insomma, sono davvero pochi gli oggetti e le attività del mondo informatico che offrano qualcosa che prima era radicalmente impossibile. Per lo più velocizzano l'esistente - che non è comunque disprezzabile - oppure si fanno carico di compiti ripetitivi che l'uomo si annoia a fare e che non è adatto a fare.
Simulazioni molte, novità poche, dunque, se non fosse per Dan Brik e Bob Frankston.
Siamo nel 1979 a Harvard: Dan la mattina segue i corsi della rinomata business school, mentre Bob dorme tranquillamente. Si vedono al pomeriggio, riordinano le idee del loro progetto e poi si mettono a un terminale, collegato a pagamento a un computer lontano. Bob andrà avanti tutta la notte, non solo per quell'abitudine inveterata al lavoro notturno tipica dei programmatori, ma anche perché dopo le 11 di sera le ore-macchina hanno un costo inferiore e c'è meno carico: così il sistema di time-sharing, dovendo suddividersi tra un minor numero di terminali, garantisce risposte più rapide.
Il progetto al quale i due lavorano è un'idea che alcuni professori di Dan avevano giudicato balzana e altri «interessantissima». L'ispirazione gli era venuta agli inizi degli anni Settanta…
"il manifesto", 31 agosto 1991
Nessun commento:
Posta un commento