19.8.12

Dumas: la vera storia di fra' Diavolo, brigante siciliano.

L'opera lirica "Fra' Diavolo" di Auber e Scribe
in una edizione parigina del 2009
Il personaggio di Fra’ Diavolo, reso famoso da un opera lirica di Auber, composta su libretto di Scribe, e rappresentata la prima volta a Parigi nel 1830, poi immortalato in decine di testi letterari, teatrali o filmici, è generalmente identificato con Michele Arcangelo Pezza, nativo di Itri e capo in fasi diverse della guerriglia legittimista filoborbonica, nell’Italia meridionale.
Ma esiste una diversa tradizione, da quasi tutti ignorata, che lo vuole siciliano, nato, cresciuto e vissuto nei dintorni di Palermo.
Questa seconda tradizione è stata raccolta e tramandata da un grande scrittore, Alexandre Dumas, nel reportage sull’impresa dei Mille intitolato I Garibaldini, costituito dalle lettere inviate dall’Italia all’esule Giacinto Carini per la pubblicazione su giornali francesi e poi rimaneggiate per l’edizione in volume.
Il libro fu pubblicato in Francia nel 1861. In italiano nei primi anni Ottanta del 900 ne curò una trasposizione italiana per gli Editori Riuniti Antonello Trombadori, a cui si deve anche la traduzione. Gli Editori Riuniti University Press ne hanno curato l’anno scorso una riedizione con l’introduzione di uno dei maggiori specialisti di Dumas, Lanfranco Binni, che si può leggere nel suo sito.
Spero di poter controllare prima o poi la nuova traduzione, di Bourno Marta, giacché quella di Trombadori lascia più di una perplessità. Quale che sia il testo francese, sarebbe bastato guardare una cartina geografica per dare una giusta traduzione dei nomi di località, ma lo sciatto Tromba d’oro (fu il soprannome attribuitogli da “Il Male”) non si è preso cura di farlo. Altrimenti avrebbe facilmente capito che i gendarmi non potevano arrivare dall'inesistente Merzoiero, ma soltanto da Mezzojuso.
Dumas racconta di aver raccolto le notizie su Fra’ Diavolo a Villafrati, nel palazzo dei Filangieri di San Marco, ove era ospite del conte Tasca. Proprio da lui apprende che da quelle parti, tra le colline circostanti e la piana col Castello di Diana, si era conclusa l’epopea del brigante con la cattura e la tragica fine.
A raccontare la storia nel reportage (è il metodo classico delle scatole cinesi – una storia dentro la storia) è un vecchio che ha conosciuto personalmente Fra’ Diavolo e il racconto è reso credibile - oltre che dalla ambientazione (toponomastica a parte) - anche dai cognomi dei personaggi che da quelle parti sono tuttora molto diffusi.
C’è un Davì di Torretta, paesino di cui ricordo un’unica persona, un giovane compagno maoista con lo stesso cognome, assai timido. E c’è un “Vitali de’ Cinesi”. Naturalmente è Vitali di Cìnisi, il paese di Impastato. In quella zona lì ci sono tuttora numerosi Vitali e Vitale. Uno, il mio caro collega d’Università Salvo Vitale, è stato il più stretto compagno d’armi e il biografo del nostro Peppino. Sono persuaso che il sapersi imparentato alla lontana con un ribelle all’ordine costituito non lo inquieta affatto. (S.L.L.)
Stanlio e Ollio nel film "Fra Diavolo" (1935)
Si chiamava Antonio Borzetta
ed era nato a Carini
Ieri sera, il conte Tasca, conversando con me sulla terrazza, ha detto che ci troviamo sui luoghi stessi che furono teatro delle gesta del famoso Fra' Diavolo. Le montagne di fronte erano il suo abituale rifugio, e un boschetto d'olivi situato a tre miglia di qui, proprietà del marchese di San Marco, vide il suo ultimo combattimento.
Avendo io manifestato il desiderio di raccogliere i più ampi particolari su un personaggio che le parole di Scribe e la musica di Auber hanno reso tanto popolare in Francia, il conte ha mandato a chiamare uno dei campieri del marchese di San Marco, un uomo tra i cinquantacinque e i sessant'anni, che ha conosciuto Fra' Diavolo di persona. Ecco il suo racconto:
Fra' Diavolo nacque a Carini verso la fine del secolo scorso o l'inizio del presente; il suo vero nome era Antonio Borzetta.
Aveva un fratello minore, di nome Ambrogio.
Suo padre aveva delle proprietà.
Colpito troppo severamente dalla giustizia per certe intemperanze di gioventù, s'era dato alla montagna e s'era fatto bandito.
Dopo sei mesi aveva raggiunto una tale reputazione da meritare il nome di Fra' Diavolo.
Un bandito rinchiuso nelle prigioni di Palermo fece sapere al viceré che se gli si fosse ridata la libertà avrebbe consegnato Fra' Diavolo, vivo o morto.
C'era rischio che il bandito non mantenesse la parola; ma il rischio che si correva, non accordandogli fiducia, era ben più grave: bisognava tentare la cattura di Fra' Diavolo che ogni giorno faceva parlar di sé con un nuovo misfatto.
Il bandito, di nome Mario Granata, fu tratto fuori dal carcere; disse che gli occorrevano soltanto dieci once per comprare polvere e pallottole.
Gli furono date le dieci once.
Chiese allora che invece di esser lasciato libero gli si permettesse di evadere.
Ottenuti gli strumenti e le condizioni necessari, evase,
Mario Granata acquistò polvere e pallottole e andò a raggiungere Fra' Diavolo del quale era compare.
Sulle prime, la sua presenza insospettì il fratello di Fra’ Diavolo Ambrogio. I due si consultarono per mettere alla prova Granata e decisero di affidargli una somma abbastanza elevata per acquistare viveri e altre cose di cui la banda aveva bisogno. Se avesse fatto ritorno con gli acquisti ci si sarebbe potuti fidare di lui poiché nulla gli poteva capitare per aver derubato dei ladri. Mario Granata andò e tornò.
A partire da quel momento egli fu ammesso nella banda.
La fiera di Castrogiovanni era vicina e prima della fiera di Castrogiovanni doveva svolgersi quella di Lentini dove si recano tutti i grossi mercanti di bestiame che approvvigionano Palermo. Come in tutti i paesi del mondo questi mercanti, sia che vadano a vendere o a comprare, portano sempre con sé molto danaro. Granata consigliò di appostarsi nelle montagne di Villafrati; il consiglio fu seguito. La banda che si componeva di sei uomini, Fra' Diavolo, suo fratello Ambrogio, Mario Granata, Giuseppe e Benedetto Davì di Torretta, e Vitali de' Cinesi, si mise in cammino verso il punto stabilito.
Poco prima di arrivare a Misilmeri, Granata domandò a Fra' Diavolo un permesso di dodici ore per andare a trovare sua moglie. Fra' Diavolo glielo accordò, senza diffidenza.
Granata avrebbe dovuto raggiungere i suoi compagni prima dell'alba sulle montagne di Villafrati.
I banditi proseguirono per la loro strada.
All'alba Granata non li aveva ancora raggiunti; si trovavano sulla montagna di Chiara Stella; Fra' Diavolo ordinò l'alt e dispose che si facesse una ricognizione a Villafrati.
Vitali scese verso il villaggio e poiché era il giorno dell'Annunciazione cominciò con l’ascoltare la messa e la predica del padre cappuccino Antonio da Bisacquino; dopodiché uscì dalla chiesa per raccogliere notizie.
Durante la messa era arrivata la gendarmeria di Merzoiero.
Quell'eccezionale movimento di forze armate spiegò a Vitali ciò che voleva sapere, vale a dire che si era sulle tracce di Fra' Diavolo.
Si avviò di corsa verso la montagna; ma si imbatté in un cordone di due compagnie di soldati che il viceré aveva dislocato nella località indicata da Mario Granata.
Le due compagnie erano comandate dal capitano Antonio Orlando e dai sottufficiali Fredde e Antonio Pensione, di Palermo.
Fu chiesto a Vitali che cosa veniva a fare sulla montagna.
Vitali rispose che era venuto a cercar piante medicinali per gli erboristi e i farmacisti.
Mentre i soldati stavano consultandosi se farlo passare o no, egli si aprì un varco con uno strattone, e sparì in un baleno dentro le forre.
In capo a un quarto d'ora aveva già raggiunto Fra' Diavolo e lo aveva messo al corrente di tutto.
Tentarono una per una tutte le vie d'uscita; ma la montagna era guardata da ogni parte.
Il cerchio dei soldati si stringeva sempre più. Verso le undici del mattino si udirono a Villafrati i primi colpi di fucile.
Fra' Diavolo ripiegò combattendo verso il bosco d'olivi del marchese di San Marco.
Erano circa le due quando la fucileria cessò.
Alle quattro portarono a Villafrati il cadavere di Fra’ Diavolo. Per non cader vivo nelle mani dei soldati s'era tirato due colpi di pistola nella parte destra della testa.
È certo che si sia suicidato poiché la tempia destra presentava un solo foro, mentre dall'altra parte del capo le ferite erano due.
Le pallottole che per entrare avevano prodotto una sola apertura, ne avevano prodotte due per uscire.
Erano morti due o tre soldati; uno sbirro e Giuseppe Davì avevano riportato ferite.
Lo zio di Antonio Schifari, cappellano della chiesa, portò il viatico ai morenti fin sulla montagna.
Gli altri erano prigionieri. Ambrogio e Vitali che pur avendo potuto salvarsi preferirono morire con i loro compagni, furono fucilati a Carini.
L'uno e l'altro caddero ridendo.
Siccome tutta la popolazione li seguiva per assistere alla fucilazione, Ambrogio disse :
— Mia madre non ha perduto nulla a non farmi prete; anche se fossi stato considerato un santo mai mi sarebbe toccato di capeggiare una processione cosi numerosa.
Benedetto Davì fu condannato a diciotto anni di ferri.
Il cadavere di Fra' Diavolo fu decapitato; la sua testa fu passata nell'aceto bollente, presentata al viceré, a Palermo, e da questi rimandata a Carini dove fu esposta in una gabbia di ferro, come quella del suo non meno celebre collega Pasquale Bruno, del quale sono ormai quasi vent'anni che ho raccontato la storia.

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