16.8.12

Maggiorate fisiche. Il processo di Frine da Scarfoglio alla Lollo.

Credo che, tra i meno giovani, non pochi rammentino un episodio del film Altri tempi (1951), di Alessandro Blasetti, dal titolo Il processo di Frine. C’è un Vittorio De Sica attore, che gigioneggia e giganteggia nel ruolo del difensore d’ufficio, e un Gina Lollobrigida, “la donna più bella del mondo”, ammirevole nella parte di una popolana accusata di tentato omicidio. Dal film nacque una curiosa espressione tuttora in uso, sebbene non quanto negli anni Cinquanta, “maggiorata fisica”. E’ la caratteristica (speculare a quella di “minorato psichico”) per cui De Sica, l’avvocato, chiede ad altissima voce, nonostante l’evidenza del crimine, l’assoluzione della Lollo la cui bellezza era paragonata a quella dell’antica Frine.
Nella lunga novella di Edoardo Scarfoglio che è alla base del cinematografico episodio l’espressione “maggiorata fisica” non c’è, ma vi sono molte bellezze, prima fra tutte la caratterizzazione dei personaggi minori, dal presidente della Corte ai testimoni, il cui tendenziale macchiettismo è addolcito dall’acutezza dello sguardo e dall’ironia del narratore. Ne riporto qui l’incipit. Ho aggiunto, alla fine, il link cui si può attingere per completare la lettura. (S.L.L.)      
Edoardo Scarfoglio
In farmacia
L'atto di accusa narra seccamente, se bene non senza certo pomposo sfoggio di stile aulico, come la mattina del 23 maggio 1879 Mariantonia Desiderj di anni ventisei, moglie di Giatteo Baciccia, detto lu Sfrusciate, di anni trentadue, contadino, nato e domiciliato in Guardiagrele, entrasse nella farmacia del paese e vedendola frequente di avventori, posasse in un cantuccio un cestellino coperto di pampani freschi che aveva recato seco, e sedesse aspettando che la bottega si spopolasse.
Lo speziale, vedendola più fresca del solito e simile a una pianta fruttifera madida ancora di rugiada, ebbe nell'animo un ricorso di spirito cavalleresco, e ripiegando un pezzo di carta intorno al collo d'una bottiglia, affacciò il capo tra due cafoni che stavano con le mani pronte a ricevere le medicine e coi soldi nelle mani, e fece un cenno interrogativo. Mariantonia gli rispose con un altro cenno, significante che voleva aspettare; e poiché lo speziale sorrise interpretando a modo suo quel desiderio, Mariantonia, che non intese l'interpretazione, rispose anche al sorriso; poi si nettò il naso con un lembo del grembiale, e stette pazientemente contemplandosi le dita inanellate, con la giogaia della gola increspata sotto il mento abbassato. Gli avventori maschili e femminili sgomberavano l'uno dopo l'altro, poiché il farmacista si affrettava a servirli; e quando l'ultimo ebbe la sua dose di chinino, e si mosse per escire, Mariantonia raccolse il cestellino che aveva deposto, si levò, e andò a metterlo sul banco davanti allo speziale. Questi, meravigliato a quel dono non aspettato, tolse i pampani guardando la donatrice con un'aria interrogativa; e vedendo che erano ciliegie, lo ricoperse e lo mise da parte: «Che vuoi?» domandò, non sapendo più che si pensare.
Mariantonia, che stava ritta dall'altra parte del banco e non aveva nell'aspetto nulla di straordinario, ma era sempre quella bella giovenca sciocca che era stata sino a quel dì, rispose: «Nu puchétte de veléne».
Lo speziale la guardò in faccia, più stupito in vero che sospettoso; ma quella faccia era così serena nell'armonia delle linee non turbata dalla crescente prosperità della carne, che il provveditore alla salute del popolo di Guardiagrele rise del suo stupore, e del non aver subito pensato che quello doveva essere un pretesto per venire ai patti della resa.
E domandò ancora, con un risolino e un accento scherzoso come per proseguire la celia:
«E che ne vu' fa
«Serve pe' li surge».
Questa risposta così naturale, detta con voce placida, sconquassò il ragionamento egoistico e artificioso dello speziale, e lo ferì nella vanità:
«Va, va. Che surge t'accunte! Nen ti' la jatta?».
Ma Mariantonia insisteva con un accento di verità così calmo e così serio insieme, che il farmacista pensò di approfittare di quel bisogno, per dettar lui i patti della dedizione; e, mentr'essa perorava non già con sillogismi, ma con un ragionamento immaginoso: «... Me se magneno tuttu lu rano...» cominciò a ridere con un'aria che avrebbe voluto essere mefistofelica: «Nen te le pozzo dà».
«Ma pecché?».
«Esse pecché. Pecché nen pozze».
«'Mbe', a Graziella la fija de lu Scupinare je le si' date e a me nne me le vu' dà? Te le facce scuntà».
«Si' viste? A te 'n le voje dà».
E seguitarono, ella incalzando nell'esortazione, egli cocciuto in una negativa seminata di piccoli sorrisi furbeschi e di occhiate maliziose; poi escì di dietro il banco, e andò a chiudere uno dei battenti della porta; così il sole, che fino a quel momento aveva empita tutta la bottega rimbalzando dalle vetrine e frangendosi per le boccette, fu scacciato.
Un'ombra discreta seminascose pietosamente quei due, e parve che li consigliasse di fare presto. Infatti lo speziale vedendo che Mariantonia non veniva alle panie dialettiche ov'egli l'invescava, le andò quasi addosso e le disse a mezza voce: «Se tu me dì chell'affare, i' te denghe lu veléne».
Mariantonia, senza ombra di turbamento, semplicemente, come se si fosse trattato di dare cinque soldi, disse: «'Mbé' scí, te le denghe».
Lo speziale la guardò di nuovo, questa volta più sospettoso che stupito. Più d'un diritto di prima o di una seconda notte egli aveva goduto, e più volte da qualche povera diavola che non aveva denari s'era fatto pagare in natura; ma quella cessione così facile, senza né pure un accenno di resistenza, e volontaria, senza un'insurrezione del pudore e senza uno stimolo del desiderio, da parte di Mariantonia che non aveva mai badato né alle lusinghe, né alle promesse, né alle canzonature di quel don Giovanni villereccio era proprio una cosa strana. Però l'aspetto di quella donna era tanto schiettamente tranquillo, e nei bellissimi occhi oleati la naturale sciocchezza dormicchiava con tanta pace, che quel macinatore di droghe rivolse ogni cosa a beneficio della sua vanità mascolina, senza un pensiero di gratitudine pei topi…

Da Il processo di Frine di Edoardo Scarfoglio

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