E’ spesso il Fondo monetario internazionale (Fmi) a verificare la «credibilità» degli Stati indebitati. Ma chi verifica la credibilità del Fmi? E’ l’interrogativa didattica che Manlio Dinucci pone a base di un suo articolo del “manifesto” di alcuni mesi fa, in cui spiega le modalità di funzionamento del Fondo e che mi pare utile “postare” per ricordare. (S.L.L.)
Nella presentazione ufficiale si spiega che, a differenza dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, dove ogni paese ha un voto, il Fondo è stato concepito per rispecchiare la posizione di ogni paese membro nell'economia globale. In base a questo criterio, a ciascuno degli attuali 187 paesi membri viene assegnata una quota che determina il suo impegno finanziario nel Fmi e, in proporzione a tale quota, il suo «potere di voto». Il principio «democratico» è chiaro: più forte è economicamente un paese, più voti ha; più debole è, meno voti ha. Così, al voto, il gruppo comprendente 21 paesi dell'Africa subsahariana può alzare solo 3 mani, mentre il solo rappresentante degli Stati uniti, per una mostruosa mutazione genetica, ne alza 17.
Nel Fondo, il cui quartier generale è a Washington, gli Stati uniti hanno il massimo «potere di voto», disponendo di circa il 17% del totale dei voti. Seguono Giappone, Germania, Francia e Gran Bretagna con quote del 6-4%, mentre l'Italia ha circa il 3%, poco più del Canada. Complessivamente, i paesi del G7 detengono circa il 45% dei voti che, con quelli di altre «economie avanzate», salgono al 60%. Hanno quindi un peso determinante in tutte le decisioni.
La storia del Fondo monetario internazionale ha attraversato cinque fasi: la ricostruzione del dopoguerra (1944-71), la fine del sistema di Bretton Woods (1972-81), il debito e le «dolorose riforme» (1982-89), il cambiamento nelle società dell'Europa orientale e dell'Asia (1990-2004), la globalizzazione e la crisi (2005-presente). In ciascuna di queste fasi, gli Stati uniti e le maggiori potenze occidentali hanno usato il Fondo come grimaldello, per penetrare nelle economie in via di sviluppo e successivamente in quelle in transizione dal socialismo al capitalismo. Principale leva è stata la politica di «aggiustamento strutturale», articolata in «austerità fiscale» per aumentare le tasse e ridurre la spesa sociale a vantaggio dei gruppi privati, «privatizzazione» per far passare le imprese pubbliche nelle mani delle multinazionali, «liberalizzazione finanziaria» per spalancare le porte del paese alle grandi banche d'investimento e strangolarlo col cappio del debito.
Si sa bene quali siano state le disastrose conseguenze sociali della politica di «aggiustamento strutturale» nelle regioni economicamente meno sviluppate. Poco invece si sa come, tra le stesse «economie avanzate» che controllano il Fondo, sia in corso una contesa per il predominio. Gli Stati uniti hanno interesse a demolire l'euro, concorrente del dollaro, e a impedire che l'Unione europea si svincoli dalla loro influenza. Approfittano perciò della crisi finanziaria, originata dalle bolle speculative da loro stessi create, che oggi colpisce anche l'Italia. Al termine del G20 di Cannes, il presidente Obama ha lodato la decisione di mettere l'Italia sotto la sorveglianza del Fmi perché, pur essendo un grande paese, «ha anche un grande debito». Dimentica però che sono gli Stati uniti il paese più indebitato del mondo, con un debito pubblico salito a oltre 15mila miliardi di dollari. Nessuno però chiede al Fmi di monitorare gli Usa per verificare la loro «credibilità». A impedirlo è il loro rappresentante che, quando vota, alza 17 mani.
Nel Fondo, il cui quartier generale è a Washington, gli Stati uniti hanno il massimo «potere di voto», disponendo di circa il 17% del totale dei voti. Seguono Giappone, Germania, Francia e Gran Bretagna con quote del 6-4%, mentre l'Italia ha circa il 3%, poco più del Canada. Complessivamente, i paesi del G7 detengono circa il 45% dei voti che, con quelli di altre «economie avanzate», salgono al 60%. Hanno quindi un peso determinante in tutte le decisioni.
La storia del Fondo monetario internazionale ha attraversato cinque fasi: la ricostruzione del dopoguerra (1944-71), la fine del sistema di Bretton Woods (1972-81), il debito e le «dolorose riforme» (1982-89), il cambiamento nelle società dell'Europa orientale e dell'Asia (1990-2004), la globalizzazione e la crisi (2005-presente). In ciascuna di queste fasi, gli Stati uniti e le maggiori potenze occidentali hanno usato il Fondo come grimaldello, per penetrare nelle economie in via di sviluppo e successivamente in quelle in transizione dal socialismo al capitalismo. Principale leva è stata la politica di «aggiustamento strutturale», articolata in «austerità fiscale» per aumentare le tasse e ridurre la spesa sociale a vantaggio dei gruppi privati, «privatizzazione» per far passare le imprese pubbliche nelle mani delle multinazionali, «liberalizzazione finanziaria» per spalancare le porte del paese alle grandi banche d'investimento e strangolarlo col cappio del debito.
Si sa bene quali siano state le disastrose conseguenze sociali della politica di «aggiustamento strutturale» nelle regioni economicamente meno sviluppate. Poco invece si sa come, tra le stesse «economie avanzate» che controllano il Fondo, sia in corso una contesa per il predominio. Gli Stati uniti hanno interesse a demolire l'euro, concorrente del dollaro, e a impedire che l'Unione europea si svincoli dalla loro influenza. Approfittano perciò della crisi finanziaria, originata dalle bolle speculative da loro stessi create, che oggi colpisce anche l'Italia. Al termine del G20 di Cannes, il presidente Obama ha lodato la decisione di mettere l'Italia sotto la sorveglianza del Fmi perché, pur essendo un grande paese, «ha anche un grande debito». Dimentica però che sono gli Stati uniti il paese più indebitato del mondo, con un debito pubblico salito a oltre 15mila miliardi di dollari. Nessuno però chiede al Fmi di monitorare gli Usa per verificare la loro «credibilità». A impedirlo è il loro rappresentante che, quando vota, alza 17 mani.
"il manifesto"6.11.2011
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