20.12.16

Da Joyce a Chaplin. Il fascino universale di Eleonora Duse (Attilio Bertolucci)

Ci voleva William Weaver, americano "italianato" ("diavolo scatenato" non direi, ma traduttore temerario certo, se si è assunto l'impresa, condotta del resto in porto benissimo, di tradurre in inglese Il Pasticciaccio di Gadda), per darci quella biografia di Eleonora Duse che ci mancava. Di "Duse", come si usava dire negli anni della gloria mondiale dell'attrice, come più tardi si disse "Garbo": i nomi di battesimo a perdere, per l'"inimitabile" e la "divina", insomma le "supreme".
In una breve prefazione al suo ricco, documentatissimo e leggibilissimo libro (Eleonora Duse, Bompiani, pagg. 416, lire 30.000), Weaver ci racconta come gli venne l'idea di scrivere questa vita, quando da lui, appassionato di musica, specie di melodramma, ci si poteva aspettare magari una Callas, ascoltata dal vivo nelle fantastiche stagioni della Scala anni Cinquanta. Ma forse, callasiano o tebaldiano che fosse - probabile la prima ipotesi, proprio a causa della passione che l'argomento avrebbe potuto ridestare in lui - avrà rinunciato a provarcisi. Racconta dunque il nostro come, un noioso pomeriggio che si trovava, come dire, disoccupato a New York, "per ammazzare il tempo" si infilò in una saletta di proiezione del Museo d'Arte Moderna dove davano dei filmati di famose attrici dei tempi andati. Passano immagini di Minnie Madden Fiske e la gente ride, di Sarah Bernhardt, e le risate aumentano. "Mi vergogno di dire che anch' io, per quanto crudele sentissi che la cosa potesse sembrare, non riuscivo a trattenermi dal ridere". Ma ecco, compare sullo schermo la Duse nel film Cenere, da lei interpretato e in un certo senso diretto, almeno per quel che riguardava i suoi gesti, i suoi sguardi. E mancava, eravamo ai tempi del muto, la sua voce stregante. Si trattava di lei al declino della carriera e della vita, con i capelli bianchi al naturale e senza il trucco, che aveva sempre rifiutato. Nessuno ride più, l'attenzione si fa intensa, appassionata in tutti.
Weaver si rende conto, da quella testimonianza imperfetta, che la statura artistica dell'attrice doveva essere ben degna del nome magico che lui aveva tante volte incontrato, infaticabile archeologo, se così si può dire, di fatti artistici dell'età di Verdi e di Puccini. Essa meritava una ricerca che ne rivelasse i segreti umani e professionali, ne storicizzasse l'importanza nel suo tempo. Bisogna ringraziarlo del suo lavoro perché, fra l'altro, se la gran donna domina il quadro, il quadro stesso risulta fitto di ritratti di persone che ancora ci interessano e che lei - più, tanto più (D'Annunzio) o meno (Pirandello) - aveva, nel corso della sua fortunosa esistenza, toccato.
Nata nel 1858 e morta nel 1924, la Duse attraversa (figlia d'arte, diciamo di guitti, entra in palcoscenico la prima volta a cinque anni) l'intera, o quasi, seconda metà dell'Ottocento e il primo quarto del Novecento. Attraversa pure oceani, pianure, montagne poi che, da un certo momento in là, da prestissimo, recita, in italiano, più all'estero che nel suo paese. E all'estero di polmonite muore, interpretando La donna del mare dell'amato Ibsen per gli americani, nella fumosa, inquinata, metallurgica e tuttavia non priva di tradizioni culturali Pittsburgh. E già che ci siamo, quel che conta di più, aggiungiamo che ella attraversa, o vorrebbe, i movimenti artistici più vivi succedentisi negli anni della sua vita. Perché "vorrebbe", e raramente può? Perché il pubblico la esige nella Signora delle Camelie, in Sardou e Giacosa e Scribe, la accetta senza entusiasmo quando si avventura nell'Ibsen più arduo, quello di Rosmersholm.
Fra le testimonianze singolari, anche commoventi, che troviamo nel libro, questa, scritta dopo la prima dell'Antonio e Cleopatra messo in scena con scarsi mezzi ma grande passione a Pietroburgo (meno male che qualche Shakespeare la Duse riesce a inserirlo nel suo repertorio; in fondo con Shakepeare aveva cominciato, interpretando Giulietta alla stessa età della sfortunata eroina adolescente). "Ho visto l' attrice italiana Duse nel ruolo di Cleopatra. Non conosco l'italiano, ma recitava così meravigliosamente che mi sembrava di capire ogni parola. Che stupenda attrice..." Chi scrive è Anton Cecov. Ma quando mai le toccò di recitare Cecov? Così saranno entusiasti di lei, avendola sentita recitare in lingua a loro sconosciuta, ma è chiaro che doveva avere un fascino incredibile, mai più toccato in sorte a nessuna nostra attrice, G.B. Shaw, Rainer Maria Rilke, Hofmannsthal, James Joyce, che ne teneva una fotografia sul suo tavolo a Dublino negli anni della giovinezza e, udite udite, Charlie Chaplin.
Siamo nei giorni dell' ultima, fatale tournèe americana, cui la Duse si è decisa soprattutto per motivi economici. È rimasta all'asciutto dopo più di dieci anni di quell'abbandono delle scene, fra il 1910 e il 1920 circa, da lei deciso forse in seguito alla fine traumatica della sua liaison amorosa e artistica con Gabriele D' Annunzio. Ci torneremo, ma lasciateci dire di Chaplin. Il 19 febbraio del 1924, un mese prima delle sue recite nel Nord, a Pittsburgh (oh, viaggi incredibilmenti disagiati, squallidi ed eroici, delle nostre rinomate compagnie di prosa di un tempo, chi scriverà il vostro romanzo, chi dirigerà il vostro film?), la Duse apre a Los Angeles con La porta chiusa di Marco Praga. Subito, il giorno appresso, sul Los Angeles Times esce questo giudizio: “È senza dubbio una donna vecchia, ma si sente in lei una bambina infelice, il palpito di un grande cuore. Risultato: un' artista perfetta... La Bernhardt risultava sempre studiatissima e, più o meno, artificiosa. La Duse è diretta e terribile". Poco più in là, in riferimento alla regia che, è noto, andava attribuita all'attrice stessa: "...potessimo dirigere un film come lei ha diretto questa pièce, non rispettando, anzi violando coscientemente le regole, sia sulla comparsa degli attori in scena che sull'uso delle luci ecc...". L' entusiasta autore dell'articolo è Charlie Chaplin, che già nel 1920 aveva diretto quel capolavoro di interpretazione e di regia che è il Monello.
Fra tanti tentativi abortiti di recitare opere del "teatro di poesia" allora nato in giusta alternativa al teatro naturalista, ormai sul finire del suo ciclo fisiologico, teatro di poesia da cui ella si sentiva particolarmente attratta (sino all'ultimo sognò di interpretare opere di Yeats e di Claudel), l'unico riuscito fu, ma zoppo, quello compiuto negli anni del suo sodalizio artistico-erotico con D'Annunzio. Dopo recite e recite di Città morte, Gioconde, Francesche, tenute in vita sul palcoscenico dalla sua grande arte, ma nate morte, quando finalmente Gabriele riesce (sono i tempi di felicità creativa delle Laudi) a scrivere il suo capolavoro teatrale, La figlia di Jorio, l'amante si è trovata una partner giovane e bella, la marchesa di Rudinì, il drammaturgo si è scelta, come Mila di Codra, la nascente attrice Irma Gramatica. Ho appena sfiorato l'argomento Duse-D'Annunzio, che è raccontato con grande obbiettività da Weaver; e già lo aveva raccontato con scarsissima obiettività D' Annunzio stesso, è arcinoto, nel suo romanzo, piuttosto greve se pur non privo di belle pagine descrittive, che s'intitola Il Fuoco. Un libro che fece scandalo, in quegli anni. Luci e ombre, più ombre, o se volete chiamarle peccati, da parte del Poeta che dell'Attrice. La quale, se mai, e questo è un lato della personalità della Duse che Weaver non nasconde, poteva spesso mostrarsi eccessiva nei suoi trasporti, forse più verbali che fisici (le lettere, i telegrammi, gli esclamativi, le maiuscole), così da ingenerare noia nel poeta, che pure non scherzava, in fatto di parole. E non scherzava in fatto di donne, fossero esse "camieriere, contadine, contesse, baronesse" o grandi artiste di teatro, e non pare soltanto "pel piacer di porle in lista".


“la Repubblica” 2 giugno 1985  

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