In un’intervista
esclusiva a Emiliano Alessandroni per il sito ( http://www.marx21.it/
) dell’Associazione Politico-Culturale Marx XXI, di cui è
presidente, Domenico Losurdo presenta il suo nuovo libro, Un mondo
senza guerre.
Iniziamo da un nesso
immediato: il tema centrale del tuo nuovo libro (D. Losurdo, Un
mondo senza guerre. L’idea di pace dalle promesse del passato alle
tragedie del presente, Carocci, Roma) non può che richiamare
alla mente, a quel lettore che ha seguito un poco il tuo percorso
intellettuale, un altro tema a cui hai dedicato attenzione nel corso
dei tuoi studi: quello della non-violenza (cfr. La non-violenza.
Una storia fuori dal mito, Laterza, Roma-Bari 2010). Esiste un
filo conduttore tra questi argomenti e tra queste due ricerche?
Il libro sulla
non-violenza giunge a un risultato assai sorprendente per il comune
lettore. Al momento dello scoppio della prima guerra mondiale Gandhi
si offriva quale «reclutatore capo» di truppe indiane per
l’esercito britannico e lanciava un appello alla mobilitazione
totale: l’India doveva essere pronta a «offrire nell’ora critica
tutti i suoi figli validi in sacrificio all’Impero», a «offrire
tutti i suoi figli idonei come sacrificio per l’Impero in questo
suo momento critico»; «dobbiamo dare per la difesa dell’Impero
ogni uomo di cui disponiamo». Lenin invece esprimeva tutto il suo
orrore per la carneficina che infuriava, invitava a porvi fine e
promuoveva la rivoluzione in nome anche della pace. Tale pace doveva
includere i popoli coloniali, dalle grandi potenze imperialistiche
razziati a guisa di schiavi e costretti a combattere e a morire a
migliaia di chilometri dalla loro terra per una causa che certamente
non era la loro. In questo senso il libro sulla non-violenza ha
gettato le basi per l’odierno libro su pace e guerra.
Nel tuo libro
presenti, in relazione al tema della pace, un quadro della storia più
complesso e intrecciato di quello che, di consuetudine, tende ad
offrire il manicheismo della logica binaria: il cammino dell'umanità
più che da scontri tra ideali di pace e ideali di guerra, appare
scandito, soprattutto dopo l'avvento dell'età moderna, da conflitti
tra diversi ideali di pace. Potresti illustrarci concretamente questo
tipo di dialettica?
Alcuni decenni prima
della rivoluzione francese a parlare di «pace perpetua» era l’abate
di Saint-Pierre, che però intendeva far valere tale ideale solo per
le potenze civili e cristiane dell’Europa. Esse erano chiamate a
rappacificarsi e ad allearsi in modo da fronteggiare meglio i
«turchi», i «corsari d'Africa» e i «tartari»; combattendo
contro i barbari, esse potevano persino trovare «le occasioni per
coltivare il genio e i talenti militari». Facciamo un salto di quasi
due secoli. Nel 1907 il Premio Nobel per la pace era assegnato a
Ernesto Teodoro Moneta (l’unico italiano insignito di tale
riconoscimento), che quattro anni dopo non aveva difficoltà a dare
il suo appoggio alla guerra dell’Italia contro la Libia,
trasfigurata, nonostante i consueti massacri coloniali, quale
intervento civilizzatore e benefica operazione di polizia
internazionale. Peraltro, nel rivendicare la sua coerenza di
«pacifista», Moneta aveva il merito di esprimersi con chiarezza:
ciò che veramente importava era la pace tra le «nazioni civili»,
che legittimamente scaricavano «le loro energie esuberanti nel
continente africano», e ciò «nell’interesse stesso della pace
europea» (e occidentale). Ecco la prima distinzione che s’impone:
si tratta di vedere se l’ideale della pace perpetua sia declinato
in modo universalistico. In caso contrario esso può divenire una
micidiale ideologia della guerra: negli USA della seconda metà
dell’Ottocento, i campioni del Manifest Destiny e
dell’espansionismo coloniale nel Far West si sentivano legittimati
a decimare o annientare i nativi, considerati razze inguaribilmente
bellicose che ostacolavano l’avvento della pace perpetua. Non si
tratta di un capitolo di storia remota e senza alcun rapporto con il
presente: ancora ai giorni nostri le infami guerre coloniali o
neocoloniali che in Medio Oriente hanno distrutto interi paesi,
provocato centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi sono
state presentate come operazioni di «peace-keeping» ovvero di
«polizia internazionale»! Ma per avere un’idea di cosa si tratta,
vediamo in che modo un filosofo di fama internazionale (Todorov) ha
descritto il regime change imposto in Libia nel 2011: «Oggi
sappiamo che la guerra ha fatto almeno 30.000 morti, contro le 300
vittime della repressione iniziale» rimproverate al regime che i
macellai della NATO erano decisi a rovesciare. Una brillante
operazione di «mantenimento della pace»!
Molto spesso Hegel, in
quanto teorico del conflitto, viene accusato di promuovere una
giustificazione della guerra. Nel tuo libro poni invece il suo
pensiero come un contributo filosofico alla realizzazione della pace,
ben maggiore di quello di Fichte e persino di quello dello stesso
Kant (che, possiamo dire, costituisce una sorta di precursore del
diritto internazionale). Se solitamente il passaggio
Kant-Fichte-Hegel, viene presentato come un allontanamento dall'idea
di pace, nel tuo libro questo passaggio coincide con uno sviluppo di
questo concetto. Puoi chiarire questo punto?
Al di là di Hegel,
occorre non perdere di vista le altre figure centrali della filosofia
classica tedesca. Sull’onda della lotta da lui promossa contro
l’occupazione semicoloniale da Napoleone imposta alla Germania e
all’Europa, Fichte sviluppa una teoria della rivoluzione nazionale
che è al tempo stesso rivoluzione sociale. Attraverso la mediazione
di Lenin, grande ammiratore della sollevazione antinapoleonica, tale
teoria svolge un ruolo centrale nelle rivoluzioni anticoloniali del
Novecento. Se si volesse attualizzare la lezione dell’ultimo
Fichte, occorrerebbe promuovere un movimento di protesta e di ripulsa
contro le basi militari che gli USA e la NATO hanno installato in
Europa che minacciano di coinvolgere rovinosamente l’Europa in una
guerra decisa sovranamente da Washington. È lo stesso Brzezinski,
già membro dell’amministrazione Carter e tuttora influente
stratega statunitense a parlare dei presunti alleati degli USA come
di «vassalli». Questi – possiamo aggiungere – sono costretti a
erogare risorse finanziarie e carne da cannone per le guerre
dell’Impero americano, così com’erano costretti a fare gli Stati
tedeschi per le guerre dell’Impero napoleonico.
Per quanto riguarda Kant,
la «pace perpetua» da lui invocata non solo ha una dimensione
universalistica ma comporta la condanna della schiavitù nera,
abolita dalle correnti più radicali della rivoluzione francese ma
fiorente nel liberale Impero britannico (e nella stessa repubblica
nordamericana nata da una costola di tale Impero). Vale la pena di
aggiungere che la «pace perpetua» auspicata da Kant presuppone un
rapporto di eguaglianza tra i diversi Stati e non ha nulla che fare
con il dominio planetario imposto da uno Stato o da un gruppo di
Stati, non ha nulla a che fare con la «monarchia universale», agli
occhi del filosofo tedesco sinonimo di «dispotismo senz’anima».
William Pitt, primo ministro della Gran Bretagna liberale che, in
nome della libertà, pretende di rovesciare il governo rivoluzionario
francese è bollato da Kant quale «nemico del genere umano». Siamo
in presenza di una sorta di denuncia ante litteram della
politica di regime change, ai giorni nostri messa in atto da
Washington (spesso con la complicità subalterna di Bruxelles). È
vero, Kant è stato più volte invocato dall’Occidente nel corso
delle sue «operazioni di polizia internazionale»; ma agli apologeti
della «monarchia universale» e del regime change noi possiamo ben
rispondere: «giù le mani da Kant!». A coloro che, in nome di
presunti valori universali, pretendono di dettar legge nel mondo
intero, il grande filosofo della pace ha obiettato in anticipo: «la
natura sapientemente separa i popoli»; a ciò provvede la «diversità
delle lingue e delle religioni»; il tentativo di unificare il mondo
sotto il segno del dispotismo internazionale si scontra pertanto con
la resistenza dei popoli e finisce col produrre un’«anarchia»
sanguinosa.
È giusto peraltro
sottolineare l’importanza tutta particolare di Hegel. Pochi hanno
riflettuto sul fatto che il bilancio critico da lui tracciato
dell’ideale della «pace perpetua» è una critica severa delle
guerre condotte in nome di questo ideale! Per dirla con Engels, la
pace perpetua promessa dalla rivoluzione francese si trasforma con
Napoleone in una guerra ininterrotta di conquiste. È la medesima
conclusione a cui giunge Hegel. Con la disfatta di Napoleone e
l’avvento della Restaurazione la Santa Alleanza conduce le sue
spedizioni punitive e le sue guerre agitando essa stessa la bandiera
della «pace perpetua»; e anche in questo caso calzante e pungente è
la critica di Hegel: voler assicurare la «pace perpetua» mediante
l’esportazione con la forza delle armi di questo o quel regime
politico significa rendere la guerra non solo perpetua ma anche
totale.
Che rapporto sussiste
tra l'ideale rivoluzionario e quello pacifista? Sono essi
compatibili?
L’idea universalistica
di pace perpetua è emersa ed è diventata un’aspirazione e un
movimento di massa in occasione della rivoluzione francese e, con una
forza tutta particolare, con lo scoppio della rivoluzione d’ottobre.
Si tratta di due rivoluzioni che rispettivamente hanno finito col
promuovere o hanno promosso in modo consapevole e organizzato la
lotta contro il sistema coloniale (e il pregiudizio razziale a esso
connesso). La rivoluzione del 1789 sfocia in Santo Domingo-Haiti
nella grande sollevazione degli schiavi neri diretta da
Toussaint-Louverture. Nel 1917, subito dopo la rivoluzione d’ottobre,
Lenin fa appello agli «schiavi delle colonie» a spezzare le loro
catene. L’universalismo mette radicalmente in discussione da un
lato l’assoggettamento coloniale e la schiavitù o semi-schiavitù
coloniale e dall’altro l’idea per cui le «razze superiori»
sarebbero destinate a dominare quelle «inferiori» e i popoli di
cultura superiore sarebbero chiamati a dettar legge a quelli di
cultura inferiore. È in questo contesto politico-ideologico che
l’idea universalistica di un mondo senza guerre può ispirare un
movimento di massa. Peraltro, l’esperienza storica ha dimostrato
quanto sia difficile realizzare nella pratica tale idea: si tratta di
un processo di apprendimento che è ben lungi dalla sua conclusione.
Per tracciare un'altra
comparatistica interna alle tue ricerche, come si concilia il
concetto di "pace" con quello di "lotta di classe"
(cfr. D. Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e
filosofica Laterza, Roma-Bari 2013)?
Nelle colonie, dove un
intero popolo è assoggettato, privato della sua terra, deportato e
spesso decimato, la «questione sociale» si presenta come «questione
nazionale» (ovvero la lotta di classe tende a configurarsi al tempo
stesso come lotta nazionale). L’osservazione è di Marx, il quale
per altro verso osserva: «La profonda ipocrisia, l’intrinseca
barbarie della civiltà borghese ci stanno dinanzi senza veli, non
appena dalle grandi metropoli, dove esse prendono forme rispettabili,
volgiamo gli occhi alle colonie, dove vanno in giro ignude», come
dimostra in particolare il ricorso contro i nativi a pratiche
genocide. La lotta degli «schiavi delle colonie» è una grande
lotta di classe e al tempo stesso una lotta per la pace (e contro le
forme più brutali di guerra e di violenza).
Nelle le pagine del
tuo libro sembra agire in profondità la lezione hegeliana,
soprattutto attraverso i concetti di "particolare astratto"
ed "universale astratto" che proprio in cagione della loro
astrattezza, vale a dire del mancato riconoscimento dell'alterità,
si rovesciano ciascuno nel proprio contrario. Emblemi della seconda
di queste due categorie appaiono quelli che chiami "Impero
britannico" ed "Impero americano". Puoi darci alcune
spiegazioni?
Oggi si discute molto di
universalismo e di relativismo. Occorre però tener presente una
terza posizione: l’«empirismo assoluto», che secondo Hegel ha
luogo allorché si conferisce il crisma dell’universalità anche a
un particolare assai controverso o del tutto inaccettabile. Oggi è
facile imbattersi nell’espressione «interessi e valori americani»
oppure «interessi e valori occidentali»; ed è altrettanto facile
imbattersi nella tesi per cui valori occidentali e americani
sarebbero al tempo stesso universali. In tal modo gli stessi
interessi imperiali diventano espressione di indiscutibili valori
universali. È un empirismo assoluto abbastanza esplicito. Allorché
poi un paese determinato pretende di essere la «nazione eletta da
Dio», l’empirismo assoluto si manifesta nella sua forma più
crassa e volgare. Ed esso, per dirla con Hegel, è «uno
stravolgimento e una truffa»; è un atteggiamento inaccettabile non
solo sul piano logico e «scientifico» ma anche su quello «etico».
Occorre tuttavia tener
presente che nell’empirismo assoluto può finire col cadere anche
un entusiasmo rivoluzionario poco meditato e piuttosto ingenuo, che
esige l’esportazione della rivoluzione, ignorando le peculiarità,
le sensibilità, gli interessi di ogni singola nazione. Secondo
Hegel, invece, l’universale è autentico solo nella misura in cui
sa abbracciare il particolare. Si tratta, agli occhi di Lenin, di una
«formula eccellente»!
Evidentemente la
ricostruzione storica e filosofica da te compiuta non ubbidisce a un
interesse di semplice erudizione ma giunge a misurarsi con alcuni
problemi centrali del nostro tempo. Nel volume viene mostrato come
attualmente sia in corso una guerra psicologica condotta dagli Stati
Uniti ai danni di Russia e Cina. Una guerra che, possiamo dire, ha
già riversato in Occidente una ondata di russofobia e sinofobia
suscettibile di assumere le conformazioni più svariate. A questa si
aggiunge una guerra economica, anch'essa già in atto. Ma il più
forte timore è che queste opere di destabilizzazione, già di per sé
gravide di conseguenze drammatiche sulla vita collettiva, preparino
sin da ora l'eventualità dell'annientamento sul piano militare. Puoi
illustrarci i rischi reali riguardo a quest'ultimo aspetto?
Diamo la parola a un
analista autorevole e non sospetto di simpatie comuniste. Sergio
Romano ha richiamato più volte l’attenzione sul fatto che gli USA
aspirano da un pezzo a garantire a se stessi «la possibilità di un
primo colpo [nucleare] impunito». È questa aspirazione a spiegare
la denuncia da parte del presidente Bush jr., il 13 giugno 2002, del
trattato stipulato trent’anni prima. Era «l’accordo forse più
importante della Guerra fredda», quello in base al quale USA e URSS
si impegnavano a limitare fortemente la costruzione di basi
antimissilistiche, rinunciando così al perseguimento dell’obiettivo
dell’invulnerabilità nucleare e quindi del dominio planetario che
tale invulnerabilità dovrebbe garantire. Il paese che pretende di
essere la «nazione eletta da Dio», l’unica «nazione
indispensabile» e circonfusa dall’aura dell’«eccezionalismo»,
vorrebbe assicurarsi un monopolio di fatto delle armi di distruzione
di massa e dunque una sorta di potere di vita e di morte sul resto
della popolazione mondiale. Tutto ciò non promette nulla di buono…
Su
«La Lettura» del «Corriere della Sera» (03/07/2016), Antonio
Carioti sembra implicitamente riabilitare una logica argomentativa
cara ad Ernst Nolte, sia pure aggiornata ai giorni nostri:
l'Occidente e gli Stati Uniti hanno commesso crimini atroci, ma si
tratta di congiunture, effetti collaterali sopportabili pur di
scongiurare quella che costituisce la più grande minaccia per la
pace: il superamento del sistema capitalistico. Questo, qualora si
verificasse, trasformerebbe invero il pianeta in un cumulo di
"formicai" o di "cimiteri". Sì che le guerre di
Wilson o Bush jr sarebbero ben poca cosa in confronto alla
spietatezza di Lenin o Mao, campioni, assieme al socialismo, non già
dell’ideale di pace, ma dell'intolleranza e della violenza di
classe. Che cosa risponderesti a queste accuse? Il sistema
capitalistico resta pur sempre, come il Corriere vuole indurre a
pensare, il più pacifista, il meno violento, dei sistemi realmente
possibili?
Nel tracciare il bilancio
degli ultimi due secoli di storia, l’ideologia dominante, assunta
da Carioti come un dogma indiscutibile, fa astrazione dalle colonie.
Se invece superiamo questa astrazione arbitraria e falsificante, ecco
che il quadro cambia in modo radicale. A metà dell’Ottocento, a
proposito dell’Irlanda, colonia della Gran Bretagna, Beaumont, il
compagno di Tocqueville nel corso del viaggio in America, parla di
«un'oppressione religiosa che supera ogni immaginazione»; le
angherie, le umiliazioni, le sofferenze imposte dal «tiranno»
inglese a questo «popolo schiavo» dimostrano che «nelle
istituzioni umane è presente un grado d'egoismo e di follia, di cui
è impossibile definire il confine». In quello stesso periodo di
tempo, Herbert Spencer, filosofo liberale e neoliberista, descrive in
che modo procede l’espansionismo coloniale (portato avanti in primo
luogo da paesi di consolidata tradizione liberale):
all'espropriazione degli sconfitti fa seguito il loro «sterminio»:
a farne le spese non sono solo gli «indiani del nord-America» e i
«nativi dell'Australia». Il ricorso a pratiche genocide in ogni
angolo dell’Impero coloniale britannico: in India «è stata
inflitta la morte a interi reggimenti», colpevoli di «aver osato
disobbedire ai comandi tirannici dei loro oppressori». Circa
cinquant’anni dopo, Spencer si sente costretto a rincarare la dose:
«siamo entrati in un'epoca di cannibalismo sociale in cui le nazioni
più forti stanno divorando le più deboli»; occorre riconoscere che
«i bianchi selvaggi dell'Europa stanno di gran lunga superando i
selvaggi di colore dappertutto». L’espansionismo coloniale stimola
una competizione sfociata nella carneficina della prima guerra
mondiale: per dirla con lo storico statunitense Fritz Stern, è «la
prima calamità del ventesimo secolo, la calamità dalla quale
scaturiscono tutte le altre». Sì, Hitler si propone di imitare Gran
Bretagna e Stati Uniti: mira a stabilire le «Indie tedesche» in
Europa orientale oppure a promuovere qui un’espansione coloniale
simile a quella a suo tempo verificatasi nel Far West della
repubblica nord-americana. In modo analogo si atteggia l’Impero del
Sol Levante: perché dovrebbe essere disconosciuto al Giappone il
diritto all’espansionismo coloniale e imperiale di cui fa
larghissimo uso la Gran Bretagna? Solo l’accecamento ideologico e
manicheo può negare il merito storico acquisito dal movimento
comunista nel mettere in discussione il sistema colonialista
mondiale.
Disgraziatamente, la
lotta tra colonialismo e neocolonialismo da un lato e
anticolonialismo dall’altro è ben lungi dall’essersi conclusa.
Ai giorni nostri, in particolare in Medio Oriente, le guerre
scatenate da Washington e da Bruxelles, e il cui carattere
neocoloniale è non poche volte riconosciuto e sottolineato dalla
stessa stampa occidentale, stanno provocando un disastro dopo
l’altro. Invece di prendere atto di questa realtà, Carioti grida
allo scandalo per il fatto che il sottoscritto si esprime con
«benevolenza» anche a proposito della «Siria sotto il regime della
famiglia Assad, descritta come un’”oasi di pace di pace e libertà
religiosa”». Il giornalismo brillante non ha tempo e voglia per la
precisione filologica. Diversamente Carioti si sarebbe accorto che a
suscitare la sua indignazione è un articolo dell’«International
Herald Tribune» del 30-31 luglio 2011, p. 4 (Tim Arango, Despite
upheaval, Syria beckons to Iraqis). Conviene riportarne alcuni
passaggi.
«In Irak, la Siria
rappresenta ancora qualcosa di simile a un’oasi. Gli irakeni
cominciarono a rifugiarsi di là per sfuggire la guerra diretta dagli
USA e il susseguente bagno di sangue della violenza settaria. Nel
corso della guerra, la Siria ha accolto circa 300 mila rifugiati
irakeni, più di qualsiasi altro paese nella regione (a quello che
riferisce l’Alto Commissariato ONU per i rifugiati). In questi
giorni, anche se la Siria deve fronteggiare i suoi disordini, sono
pochi gli irakeni che ritornano in patria. In effetti, sono molto più
numerosi gli irakeni che partono per la Siria di quelli che ritornano
in patria».
Oggi, la situazione è
cambiata in modo radicale. Ma chi è il responsabile della catastrofe
che è sotto gli occhi tutti? Una cosa è certa. Come documenta il
mio libro, già nel 2003 i neoconservatori USA progettavano in modo
esplicito e pubblico il cambiamento di regime a Damasco. D’altro
canto, anche Sergio Romano ha osservato: già da un pezzo la Siria
era stata inserita dai neoconservatori nel novero dei paesi
«considerati un ostacolo alla “normalizzazione”» del Medio
Oriente; «nell’ottica dei neoconservatori, se gli Stati Uniti
fossero riusciti a provocare un cambio di regime a Baghdad, Damasco e
Teheran, la regione, soggetta ormai all’egemonia congiunta degli
Stati Uniti e di Israele, sarebbe stata finalmente “pacificata”».
Sennonché, i custodi dell’ortodossia atlantica gridano allo
scandalo anche per tesi che si possono leggere tranquillamente
sull’«International Herald Tribune» o che sono espresse da
autorevoli editorialisti del «Corriere della Sera» (il quotidiano
al quale collabora anche Carioti).
Oggi abbiamo visto
assegnare premi Nobel per la pace al presidente degli Stati Uniti,
Barack Obama e al dissidente cinese, Liu Xiaobo. A contraddistinguere
l'amministrazione del primo è stato lo scatenamento della guerra
contro la Libia, il sostegno garantito ad Israele durante le
operazioni militari "Piombo fuso" e "Margine di
protezione", il supporto economico e militare al terrorismo di
matrice islamica in Siria contro il governo di Assad, il sostegno ai
tentativi di colpo di Stato militari in Venezuela e il supporto del
golpe di Majdan in Ucraina, realizzato con un considerevole
protagonismo di formazioni filonaziste come Svoboda e Pravy Sektor.
Il secondo ha esplicitamente sostenuto ed esaltato il colonialismo
occidentale ai danni della Cina. Possiamo dire che l'idea di "pace"
abbia subito, negli ultimi lustri, una preoccupante involuzione? E
quali sono state le ragioni storiche che l'hanno determinata?
Come ho spiegato in
precedenza, a lungo l’idea di un mondo senza guerre, l’idea di
«pace perpetua» è stata declinata con lo sguardo rivolto
esclusivamente all’Occidente. Certo, questa tradizione è stata
messa radicalmente in discussione dalla rivoluzione d’ottobre,
Sennonché, dopo il trionfo conseguito dall’Occidente e dal suo
paese-guida nella guerra fredda, a Washington, Bruxelles e in altri
capitali non pochi si sono abbandonati all’illusione di poter
tornare al buon tempo antico. E così, il ritorno alla grande delle
guerre coloniali o neocoloniali è andato di pari passo con il
conferimento del premio Nobel per la Pace ai protagonisti e agli
ideologi delle guerre coloniali e neocoloniali. Oltre a Obama, sono
stati insigniti Liu Xiaobo (che, rimpiangendo la «breve» durata del
dominio coloniale in Cina, di fatto celebra le guerre dell’oppio) e
l’Unione Europea (dimenticate o ridotte a bagattella sono le guerre
in Vietnam, in Algeria, in Jugoslavia...).
Ad uno spirito
pacifista oggi che cosa diresti? Come prevenire le guerre? E quali le
dinamiche concrete da attivare, nel nostro presente, affinché
l'ideale della pace perpetua non rimanga una vaga utopia?
Il primo compito di chi
vuole realmente lottare contro i pericoli di guerra è di liberarsi
dalle mitologie dominanti. Nel 2000 un libro scritto da Hardt e Negri
(Impero) e subito coronato dal successo mondiale assicurava
che, grazie alla globalizzazione affermatasi a ogni livello, si
andava affermando, anzi si era già affermata la «pace perpetua e
universale». Del tutto superata era la categoria leniniana di
imperialismo: «occorre ricordare che, alla base dello sviluppo e
dell’espansione dell’Impero, c’è l’idea della pace»; «il
suo concetto è consacrato alla pace». Tutti sono in grado di
misurare l’enorme danno che la diffusione di tale mitologia ha
provocato al movimento per la pace, oggi che il pericolo di una
guerra su larga scala è tornato all’ordine del giorno.
E, tuttavia, non basta
prendere coscienza della crescente pericolosità della situazione
mondiale. A suo tempo Hegel ha chiarito che un’azione
rivoluzionaria è tale se è una «negazione determinata». A sua
volta Lenin insiste sulla necessità di un’«analisi concreta della
situazione concreta». Occorre comprendere le caratteristiche
particolari del mondo in cui viviamo. Piuttosto che ragionare per
analogia rispetto al passato, occorre tener presenti e non perdere
mai di vista le novità della situazione presente.
Alla vigilia della prima
e della seconda guerra mondiale c’erano due coalizioni militari
contrapposte; ai giorni nostri c’è in pratica una sola gigantesca
coalizione militare la (NATO) che si espande sempre di più e che
continua a essere sotto il ferreo controllo statunitense. Alla viglia
della prima e della seconda guerra mondiale i principali paesi
capitalistici si accusavano reciprocamente di scatenare la corsa al
riarmo; ai giorni nostri, invece, gli Stati Uniti criticano i loro
alleati perché non dedicano maggiori risorse al bilancio militare,
perché non accelerano a sufficienza la politica di riarmo.
Chiaramente, la guerra a cui si pensa a Washington non è la guerra
contro la Germania, la Francia o l’Italia, ma quella contro la Cina
(il paese scaturito dalla più grande rivoluzione anticoloniale e
diretto da uno sperimentato partito comunista) e/o la Russia (che con
Putin ha avuto il torto, dal punto di vista della Casa Bianca, di
scuotersi di dosso il controllo neocoloniale cui si era piegato o
adattato Eltsin). E questa guerra su larga scala, che potrebbe
persino varcare la soglia nucleare, gli Stati Uniti sperano
all’occorrenza di poterla condurre con la partecipazione
subalterna, al loro fianco e ai loro ordini, di Germania, Francia,
Italia e degli altri paesi della NATO. È contro questo pericolo di
guerra concreto che siamo chiamati a lottare.
6 luglio 2016
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