Nel 1977, all'acme cioè
degli anni di piombo, appariva per le edizioni Il Vespro di Palermo
una lunga intervista di Antonio Cardella a Carlo Cassola intitolata
Conversazione su una cultura compromessa. Dieci anni dopo
Cassola moriva, settantenne, quasi ai margini di una società
letteraria che aveva colpevolmente scordato grandi romanzi come La
ragazza di Bube e Il taglio del bosco. Ma dopo altri dieci
anni il libretto veniva ripubblicato per i tipi delle Edizioni e/o
nella collana Piccola biblioteca morale diretta da Goffredo Fofi.
Anche a voler cedere a
suggestioni numerologiche, non occorre certo aspettare lo scadere di
altri due lustri per rileggere quel pamphlet e tornare a prendere in
rispettosa considerazione la prosa limpida e il pensiero candido di
uno dei nostri maggiori scrittori contemporanei. Ovviamente, nel
riesaminare le tesi rigorosamente estreme di quell'opuscolo
contrassegnato da un lucido pessimismo catastrofico non possiamo non
tener conto del fatto che ci separa da esso quasi un quarto di
secolo. A ridosso del tumultuoso 77, Cassola era venuto più volte a
Palermo per portare avanti il suo discorso «disarmista» in vivaci
assemblee tenute nelle aule universitarie e nelle scuole cittadine.
Cardella lo aveva poi raggiunto nella sua villa di Marina di
Castagneto per riprendere le fila di un colloquio i cui temi
fondamentali erano il pacifismo e l'antimilitarismo, ma che
fatalmente doveva allargarsi ad altre questioni (anch'esse
importantissime, ma per Cassola in un certo senso secondarie) come le
istanze libertarie dei movimenti giovanili, le reazioni autoritarie,
quando non totalitarie, dei poteri statali, il coraggio e
l'acquiescenza degli intellettuali.
Nella sua introduzione,
Fofi esprimeva un rammarico anche autocritico per la generale
disattenzione intervenuta censoriamente nei confronti del Cassola
scrittore la cui delicata poetica del «subliminale» era stata
derisa e archiviata dall'ipermodernismo delle avanguardie.
D'altronde, in quegli anni incombeva da un lato la deriva del
terrorismo «con la sua miriade di fiancheggiatori e tutti i loro
tremendi e tolleranti equivoci e distinguo», dall'altro l'ottimismo
illusorio e ipocrita del craxismo con i suoi compromessi e la sua
trionfante demagogia: forbice dilaniante che non costituiva certo il
clima politico più adatto ad accogliere l'appello visionario della
rivoluzione pacifista di Cassola. Appello disperato e folle, in senso
erasmiano, del tutto ignorato dai mass media e quindi destinato a
diventare inascoltata voce nel deserto: «ossessione totalizzante»
che Fofi paragona (pur sottolineandone la fondamentale alterità) a
quella altrettanto radicale, ma anche violenta, di Günther Anders,
per poi invece ricondurla, sulla scia di padre Balducci, alla mite
lezione di Aldo Capitini e agli incubi di Primo Levi.
Se per quest'ultimo il
mondo era stato irreversibilmente mutato e perduto dallo scandalo
blasfemo dell' olocausto, per Cassola il destino dell' umanità e
della Terra era cambiato abissalmente con Hiroshima e Nagasaki:
«Forse è finita la storia ed è cominciata l'era atomica». Ecco
dunque il senso delle sue proposte anarcoilluministe per il disarmo
unilaterale dell'Italia e contro l'articolo 52 della nostra
Costituzione, per il quale la difesa della patria è un sacro dovere
del cittadino soldato. Per Cassola, infatti, «ogni Stato sovrano
armato è garanzia che la terza guerra mondiale verrà e distruggerà
il mondo», giacché anche i sistemi democratici, al pari dei regimi
dittatoriali, sono «guerrafondai», in quanto provvisti di eserciti,
e rotelline di un esiziale macromeccanismo sistemico.
La distruzione degli
arsenali e l'abolizione delle frontiere possono, ovviamente, apparire
(o essere) delle ineffabili utopie, ma il sedicente realismo dei
Signori della Guerra non è forse un'aberrante distopia? Cassola
denuncia una sua verità difficilmente contestabile: «l'umanità è
un gigante cieco che va verso il proprio annientamento». Egli è
consapevole dell' unica alternativa che resta al genere umano: «o la
fine della divisione del mondo o la fine del mondo».
Ora che i muri sono
crollati e pianeta ed economia si globalizzano a vertiginosa
velocità, continuiamo a temere sempre più un'apocalisse che si
annuncia coi più devastanti presagi. Certo, le cose sono cambiate.
Parafrasando quel che Tolstoj pensava delle famiglie, possiamo dire
che anche ogni movimento contestatario «è infelice a suo modo»,
benché risuoni ancora l'eco (sinistra) delle parole del Manifesto di
Port Huron del 1962: «Guardiamo con preoccupazione al mondo di cui
siamo eredi». Tuttavia, quell'ormai vecchio libretto palermitano non
è del tutto obsoleto ed anzi conserva, per certi aspetti, una sua
integra attualità, che consiste nella consapevolezza che la forza
dell' uomo scaturisce dal suo essere inerme e dalla sua
«indisponibilità alla violenza».
Forse la Sicilia può
ancora, magari ricordando il gandhismo di Danilo Dolci, farsi
portatrice di valori nel contempo rivoluzionari e pacifisti in una
stagione così confusa in cui perfino taluni fautori di un'
opposizione non violenta alla globalizzazione sentono l'esigenza di
indossare una divisa, fare proclami squillanti, usare termini
bellicosi, darsi grotteschi obiettivi da manovra militare
tragicamente all' incrocio tra un sentiero luminoso e la via Paal.
“la Repubblica”, ed.
Palermo, 26 agosto 2001
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