9.12.16

Papa Bergoglio ama la metafora della merda, ma non la libertà di stampa (S.L.L.)

Il sito del quotidiano “la Repubblica” pubblica senza firma una notizia che viene dalla Città del Vaticano e riguarda un'intervista rilasciata dal Papa al settimanale cattolico belga “Tertio” sul tema della comunicazione e dell'informazione.
Dalla sintesi riportata può desumersi che a Bergoglio piace la metafora della “merda”, ma non osa pronunciare la parola. Dice che i media devono essere "limpidi e trasparenti" e non devono "cadere nella malattia della coprofilia". È un modo di comunicare contorto, assai diverso da quello del Gesù dei Vangeli, che consigliava di chiamare le cose con il proprio nome, senza ricorrere a perifrasi, reticenze o eufemismi. Se la metafora della merda per indicare qualcosa di sporco ed inquinante sembra essenziale al gesuita argentino, farebbe bene ad usare la parola; altrimenti faccia a meno della metafora senza ricorrere alle parole difficili e ai termini tecnici.
Ma un gesuita resta gesuita anche se diventa papa.
La nostra ripulsa di fronte all'intervista non riguarda tuttavia solo lo stile. Ricorrentemente la Chiesa cattolica e i suoi vertici hanno denunciato l'irresponsabilità dei giornalisti per attaccare le libertà di pensiero e di espressione. Era una delle argomentazioni che accompagnava nel Sillabo di Pio IX la condanna come errore del secolo della libertà di stampa. E già allora i polemisti gesuiti agitavano la bandiera della verità contro la libertà.
Analoghi discorsi negli anni 50 del Novecento si leggevano nei notiziari delle diocesi italiane come sulla “Civiltà cattolica” o sull'“Osservatore Romano”. Erano gli anni dei trionfi democristiani, del “regime clericale”: i preti, i gesuiti e i baciapile si agitavano quando “L'Espresso” o “Il Mondo” (oltre all'“Unità” e a “Paese sera”) denunciavano la speculazione edilizia nella capitale, il progressivo rimpinguarsi delle casse vaticane grazie a piani regolatori addomesticati e - all'ombra della croce - le carriere degli spregiudicati politicanti Dc, i Petrucci e gli Andreotti per esempio. Papa Pio, nel suo apostolato sulle “comunicazioni sociali”, e i suoi cardinali da tutti i pulpiti accusavano la stampa laica e di sinistra di “disinformare, calunniare gli avversari politici, sporcare la gente”, come fa il Papa attuale. A volte, quando non potevano negare la veridicità di quelle campagne giornalistiche, accusavano i giornalisti di scandalismo, di “rimestare nel fango”, di dire solo una parte della verità, di nascondere il tanto bene, le tante cose belle della vita. È, quasi con le stesse parole, il monito lanciato dall'attuale pontefice. Non parla di fango, è vero, preferisce i paroloni che alludono alla merda oggi tanto di moda nelle chiacchiere televisive e nei social network, ma è la stessa solfa. Per lui, infatti, i media devono "essere molto limpidi, molto trasparenti, e non cadere nella malattia della coprofilia, che è voler sempre comunicare lo scandalo, comunicare le cose brutte, anche se siano verità”.
Bergoglio per esemplificare parla di uomini pubblici rovinati dalle mezze verità o dal recupero di vecchie notizie su colpe già espiate. In verità non si sbaglia quando denuncia la spregiudicatezza di certi “comunicatori” che usano l'informazione come strumento di lotta politica e certe campagne di disinformazione tese ad orientare l'opinione pubblica in una direzione piuttosto che un'altra. Abbiamo tutti presenti le sconcezze di Feltri e il cosiddetto “metodo Boffo” e ci sono, di sicuro, leggi da rendere più efficaci, divieti dall'esercizio del mestiere di giornalista da rendere permanenti per chi viola le leggi sulla diffamazione e l'etica professionale. Ma bisogna aggiungere che “Wikileaks”, per esempio, è impresa benemerita e che anche Vatileaks ha avuto la sua pubblica utilità; e bisogna ringraziare i giornalisti che lo hanno fatto per aver reso pubblici gli intricati affari della Curia vaticana, anche senza parlare – contemporaneamente – delle opere di bene che la Chiesa cattolica finanzia. 
Il giornalismo d'inchiesta e di denuncia è un fondamento della vita democratica: si deve pretendere la veridicità, non necessariamente la completezza. Ma per il gesuita argentino, non è così: se, ad esempio, si scopre e si denuncia che un sindaco prende tangenti dai costruttori, non bisogna tacere anche le eventuali offerte che costui fa per orfanotrofi e altre benefiche imprese. Che ragionamenti sono? La stampa è un cane da guardia e denuncia le magagne del potere, anche clericale: il giornalista ha tutto il diritto di scegliere le notizie da comunicare secondo la sua sensibilità e secondo le sue gerarchie, senza addolcirle e attenuarle. Chi ha altre verità da aggiungere per completezza e precisione deve poter trovare il modo di farle arrivare ai lettori e ai telespettatori, ma il giornalista in questione non ha compiuto alcun misfatto, ha solo fatto uso della propria libertà. 
È deprimente che, mentre si preannunciano leggi per spingere gli operatori dell'informazione all'autocensura con la paura di pesanti ritorsioni economiche, un papa che si presume innovatore e vicino al popolo lanci le sue accuse soprattutto contro l'informazione che denuncia i potenti e taccia, invece, di tutte le orribili, squallide e morbose disquisizioni  sui delitti più atroci della cronaca nera che riempiono di sé soprattutto il medium più popolare, la tv, la quale dedica ad essi ore di particolareggiate trasmissioni.
Ma la cosa più grave (e per me disgustosa) dell'intervista è quando Bergoglio afferma "la gente ha la tendenza alla malattia della coprofagia". Questo significa che non sono cessati il paternalismo e l'autoritarismo cattolico, non è cessata l'idea che le donne e gli uomini, specialmente nei ceti popolari, vivano in uno stato permanente di minorità, siano bambini da proteggere, non solo dai malvagi che potrebbero approfittarne, ma anche dai loro stessi bassi istinti. Non sono molto lontani gli anni in cui con la censura e la proibizione la Chiesa cercava di difendere i popolani dalla stessa istruzione, da libri, giornali, spettacoli, film; oggi, per la progressiva secolarizzazione delle società, è costretta ad tollerare libertà che un tempo considerava peccaminose, ma l'atteggiamento verso il popolo considerato immaturo e incapace di discernimento, di autogoverno, di scelte responsabili non è mutato. Verrebbe perciò voglia di rovesciare la frittata e di rivolgere a lui, al pontefice che pontifica, la beffarda domanda che il popolano di Giuseppe Gioachino Belli rivolge a un cardinale in un celebre sonetto (Er galateo cristiano): «Je piasce, Eminentissimo, la mmerda?».

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