Tempo bello, strada
solitaria, sempre la stessa, percorsa migliaia di volte, l’auto che
scivola tranquilla. Andavo a un appuntamento in ospedale per curare
una polmonite.
Ho imboccato il ponte sul
fiume, stretto, a senso unico alternato. Sono le 11,10, in anticipo,
posso procedere a velocità medio-bassa.
Poi non ho avuto più
alcun pensiero. Il sangue mi inondava la faccia e mi scorreva sulla
mano sinistra, il fumo usciva dall’airbag afflosciato sul volante.
Davanti a me sul ponte una coppia di pedoni, un uomo e una donna,
terrorizzati, mi gridavano da lontano di uscire fuori. Stavano
attenti a non avvicinarsi: «La macchina sta prendendo fuoco,
rischia di cadere nel fiume», urlava lui. «Ma no», dico io ancora
seduto al posto di guida, «non è la macchina che prende fuoco, è
l’airbag che fuma». Ed esco dall’auto. Dopo qualche passo sul
ponte mi volto: la macchina ostruisce la strada sbarrandola, la parte
posteriore è rialzata, sollevata sulla spalletta del ponte, sospesa
nel vuoto. Mi siedo su un paracarri, mando un sms al medico con cui
avevo appuntamento. Intanto è venuta gente, avevano chiamato i
carabinieri, i vigili urbani, i pompieri, l’autoambulanza, mia
moglie a scuola. Una conoscente mi ha fatto sedere nella sua auto, mi
ha allungato dei fazzolettini di carta per tamponare il sangue che
usciva dal viso (dal naso?) e da un taglio profondo sulla mano
sinistra. Un dolore acuto al torace.
Quasi subito è arrivata
l’autoambulanza, si sono accertati che fossi lucido. Lo ero. Allora
mi hanno immobilizzato sulla tavola spinale, mi hanno messo intorno
al collo un collare protettivo. Ma immobilizzarmi supino è stata
operazione inaspettatamente lunga e complessa. Erano quattro o cinque
ragazzi, volontari, litigavano fra loro, si lamentavano che i legacci
non arrivavano. L’autoambulanza poteva ripartire solo dopo che
fossi stato legato nella posizione giusta. E’ passata così una
mezz’ora. Su quella tavola, dura, rigida, scomodissima, la schiena
che mi doleva anche più del petto. Quando questa operazione si è
conclusa, si è fatta avanti la dottoressa, mi ha battuto
sull’addome, poi ha detto che doveva fare l’elettrocardiogramma.
Ma la macchina non funzionava, il pennino, mi ha informato, non
scriveva il tracciato. Allora si è limitata a provarmi la pressione,
regolare, 80-130. Finalmente siamo partiti, ogni scossa una fitta,
dolorosissima.
Al pronto soccorso per
lungo tempo non ho visto nessuno. Mi avevano collocato in una stanza
sotto una luce vivida, disteso, immobilizzato sulla spinale. Non
potevo guardare intorno, solo in alto un pezzo di soffitto. Dietro di
me qualcuno si lamentava ma non potevo vederlo. Mi avevano spogliato,
avevo freddo, ma non passava un infermiere. E poi dovevo andare a
urinare, e non potevo. Avevo sete, la bocca secca. Sono trascorse
così più di due ore, forse tre. Quando ho intravisto una infermiera
mi sono lamentato, e lei passando rapida ha risposto: «Non gliel’ho
mica detto io di uscire di strada con la macchina». Finalmente è
arrivato il medico con cui avevo appuntamento all’ospedale, aveva
capito che ero al pronto soccorso ed è venuto a cercarmi. Si è dato
da fare per “velocizzare le operazioni”, ha detto. E infatti,
dopo un’altra mezz’ora, mi hanno trasportato sempre immobilizzato
su quella atroce barella per corridoi gelidi attraversati da correnti
d’aria fredda. Meno male che quella mattina andavo in ospedale per
finire di curare un polmonite che sembrava in via di guarigione.
Arrivati in un’altra sala, mi hanno fatto la radiografia del
torace, del collo, del naso e della mano sinistra. e mi hanno
riportato al posto di prima. Dopo non so quanto tempo (mezz’ora,
un’ora?) un infermiere anziano, con la barba brizzolata, mi ha
tolto dalla tavola spinale, mi ha fatto scivolare su un lettino,
finalmente respiravo, mi ha dato una coperta, mi ha permesso di
andare in bagno. Erano le 16,30, già passate cinque ore
dall’incidente. Poi, di nuovo per corridoi ventosi: ecografia
all’addome; infine, da un’altra parte, ecocuore. E’ tornato il
medico amico che mi ha dato qualche informazione sui risultati, sino
allora nessuno mi aveva detto nulla: frattura dello sterno. «Fra
poco, vedrai, ti manderanno a casa». Ma non era finita. Mi hanno
riportato nella saletta iniziale: altro interminabile tempo morto.
Infine arrivano una dottoressa giovane e una infermiera e aiutandosi
a vicenda, non senza incertezze e tensioni, saturano la ferita. La
dottoressa prende il cellulare e fotografa la mano ricucita. «Mando
la foto al mio fidanzato, lui è un chirurgo», dice, «dieci
punti», aggiunge soddisfatta. Intanto un altro medico scrive le
dimissioni e con l’altoparlante chiama mia moglie che venga a
prendermi. Sono le 18,45, sono passate più di sette ore
dall’incidente. Nessuno mi ha dato un bicchiere d’acqua.
Durante la notte mi torna
la tosse, profonda, cavernosa.
Apparentemente, dicono i
carabinieri, non è possibile trovare una causa dell’incidente. Ma
Eros e Thanatos, si sa, sono in eterno conflitto fra loro, e, quando
Thanatos prevale, il principio autodistruttivo trova comunque la sua
strada.
Dal sito “La
letteratura e noi”, 3 dicembre 2016.
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