14.12.16

Puccini e le donne. Povere amanti, mamme in agguato (Matilde Passa)

Il cuore nell’Ottocento e la testa nel Novecento; i dolci sogni d’amore e le miserie dei rapporti quotidiani; la riservata eleganza e i giochi grossolani. 
Giacomo Puccini, del quale ricorre oggi il settantesimo anniversario della morte, fu davvero un uomo «doppio», diviso. 
Le sue opere continuano a mietere successi (la Bohème è ancora il melodramma più eseguito in tutto il mondo). Proviamo a indagare una delle ragioni. Le donne, per esempio.
Alle quattro del mattino, il 29 novembre di settanta anni fa, Giacomo Puccini morì. Un collasso sopraggiunto dopo l'asportazione di un tumore alla gola lo stroncò nella clinica di Bruxelles dove già si sperava di vederlo salvato. Aveva 66 anni e un’estenuata voglia di vivere, o meglio una persistente ansia di morire. Ci sono due particolari che colpiscono nella fine del nostro operista tanto amato dalle folle quanto visto con sospetto, se non con avversione, da molta parte della critica: primo, la morte di tumore, malattia tanto novecentesca, lui cosi radicato nella tradizione operistica dell’Ottocento; secondo, il tumore che lo colpi proprio alla gola, luogo eletto della vocalità e di quella vocalità esasperata che proprio lui aveva portato a vette impensabili. Si potrebbe ritrovare in questo gioco di sincronie il segno di quanto l’artista fosse congeniale alla nostra epoca, ancora così in bilico tra vecchio e nuovo, immersa in una doppiezza un po’ schizoide che stenta a produrre una diversa armonia.
Una doppiezza che Giacomo riversò sia nella vita che nell’arte. Se il vitalismo toscano lo trascinava a godersi la vita, a fiondarsi nella caccia tanto delle anatre quanto delle donne, il tarlo della malinconia fin de siécle lo riportava tra le soffici morbosità del decadentismo. Se il nuovo corso della musica europea inaugurato da Wagner, proseguito da Debussy e scardinato da Schoenberg, lo attirava, sia pure con reazioni diverse, la melodia della tradizione italiana lo teneva incatenato come un terreno sicuro sul quale appoggiare i propri sentimenti. Ma sotto ribolliva quell'orchestra in cerca del nuovo, ansiosa di rompere le righe, di raccontare il frantumarsi di tutte le certezze. E dietro l’apparenza fine e sin troppo sensibile del musicista scalpitava il bambino irriverente, il toscanaccio che, con coprolalia mozartiana, si divertiva a verseggiare «cacca di Lucca è sempre senza pecca...».
È stato detto che Puccini non amava le donne. Mosco Carner, nella sua celebre biografia, dipinse un Giacomo prigioniero del complesso materno, quasi un omosessuale latente. Se in Verdi serpeggiava il complesso del padre (vedi eroine ed eroi sempre in lotta con l’autorità maschile), ratificato nel complesso edipico da Freud, al giro di boa del Novecento con i suoi fermenti di rinascita femminile, ecco in agguato la Madre. Anzi la Grande Madre junghiana, ovvero il femminile divorante, tanto più divorante quanto più mascherato sotto le vesti della dolcezza e della seduzione.
Di questa ambiguità le figure femminili pucciniane grondano. A cominciare da Tosca, virago dolcissima e selvaggia nella sua gelosia, pronta a sedurre, persino a uccidere ma fatalmente preda della sua stessa materia. E persino un’ingenua ricamatrice come Mimì nasconde sotto la sua cuffietta una rapidità a farsi conquistare dallo squattrinato poeta che svela un’abilità a tessere tele di ragno sentimentali. Per arrivare fino a Turandot, la meno ambigua di tutte, perché dichiaratamente cattivissima; una sorta di Walkiria che, anziché battersi con giavellotto ed ascia contro i suoi pretendenti, li distrugge col gioco dell'intelligenza. Un’equazione donna intelligente-donna pericolosa che si è vista in diversissime salse (fino a Basic Instinct, ad esempio). Vero è che Puccini non amava le intellettuali, né le muse ispiratrici alla Alma Mahler, per intenderci. La compagna della sua vita, Elvira, fuggita dal marito per seguire il musicista alle prime armi, non aveva certo la statura di una Mathilde Wesendoch, il grande amore di Wagner. Aveva compiuto un grandissimo atto di coraggio, lei piccola borghese di un piccolo paese di provincia, lasciando la casa coniugale per unirsi a Giacomo, ma in quel gesto aveva consumato probabilmente tutta se stessa. Il resto della loro unione fu un tormento senza estasi, un inferno. Lei non capiva nulla di musica, lui non la metteva a parte dei suoi fermenti interiori, la tradiva continuamente inseguendo gonnelle, più per stanca tradizione di «virilismo» che per filosofico dongiovannismo. Lei impazziva di gelosia. Fino alla misera tragedia che li portò in tribunale e su tutti i giornali quando la giovane cameriera Dora si suicidò per le accuse infami rivoltele dalla gelosissima signora Puccini. Li salvò da devastante scandalo il ridotto tam-tam dell'epoca e un rapporto nevrotico che li inchiavardava alle rispettive impotenze. Lui a vivere un rapporto profondo, totale con una donna, lei a ritrovare se stessa.
È facile, persino troppo, individuare nei deliri parossistici di Turandot, nel suo gelo, l’eccesso di Elvira, cosi come nella «povera» Liù il sogno di una donna capace di totale dedizione, una dedizione che non chiede nulla, ma solo offre se stessa per la felicità dell’altro. Non l’amore eroico e spudorato delle donne verdiane, ma il dolente dissolversi di un femminile che non ha più nulla da rivendicare. Per la prima volta con Turandot le due donne non sono ambigue. Un colpo di scena finale doveva riportare Turandot dal gelo al calore grazie all'amore. Ma quel colpo di scena, come è stranoto, Puccini non riuscì a comporlo. Morì con la carta da musica tra le mani. Un nodo alla gola gli impedì di «cantare» un rapporto d’amore compiuto e felice. Un nodo alla gola che ci stringe ancora, uomini e donne. Ecco perché il «piccolo borghese», il sentimentale, il nevrotico, l’anti-moderno Puccini continua a commuoverci. E a ferirci. 

l'Unità, 29 novembre 1994 

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