Riprendo dal sito di
Roberta Carlini, della cui sagacia mi fido, e colloco qui, con il
titolo lievemente modificato, il pezzo che segue. A futura memoria. (S.L.L.)
Un governo a termine,
nato da una situazione confusa, potrebbe partorire come suo primo
atto la nazionalizzazione della banca più antica del mondo. Il Monte
dei Paschi di Siena, nato nell’anno 1475 per le esigenze dei
“pascoli” della zona, ed entrato in crisi gravissima a partire
dal 2011, si salverà forse grazie all’intervento pubblico.
L’attuale management fa sapere di puntare ancora a una soluzione
“di mercato” – ossia al fatto che gli attuali azionisti e
obbligazionisti e altri investitori ci mettano i soldi -, ma la
rapidissima evoluzione che si è avuta negli ultimi giorni fa
ritenere inevitabile l’intervento del governo. Debole o forte che
sia, il nuovo governo nascerà su una grana bancaria, così come il
precedente proprio sulle banche aveva subìto i primi smacchi. E
dovrà rispondere alla domanda – non tecnica, ma politica – sulla
quale Renzi ha glissato: chi deve pagare per la crisi delle banche?
Sgombriamo il campo da un
equivoco: che l’accelerazione della crisi derivi dalla vittoria dei
No al referendum. La crisi del Montepaschi è iniziata almeno cinque
anni fa; è una banca che ha bisogno di ricapitalizzarsi, e il
“quanto” è chiaro da luglio con la pubblicazione dei risultati
degli stress test dell’Autorità bancaria europea. Non era invece
chiaro il “come”: il governo Renzi ha spinto per una soluzione di
mercato, ha imposto il cambio del management per questo, ed è stato
presentato un piano al quale risparmiatori ed investitori avrebbero
dovuto aderire. Che vincessero i Sì o i No, il piano quello era e
quello restava.
Piuttosto, la variabile
politica può aver influito in altro modo. Già da qualche settimana
era chiaro agli addetti ai lavori che le adesioni al piano arrivavano
col contagocce, e che dunque non si sarebbe raggiunto l’obiettivo
della ricapitalizzazione. Era necessario un “piano B”, con un
intervento pubblico nel quadro delle regole europee, che però il
governo ha evitato di realizzare, o anche solo di annunciare (anche
se lo ha preparato), forse perché non voleva farlo deflagrare in
campagna elettorale. E questo perché le stesse regole europee, che
hanno consentito in passato ai virtuosi tedeschi come ai nostri
vicini spagnoli (nonché agli irlandesi, e al Regno Unito pre-Brexit)
di salvare le proprie banche con fondi statali, si sono poi
irrigidite. In sostanza, con le nuove regole dovrebbe essere lo
stesso sistema bancario ad auto-salvarsi, mettendoci fondi propri –
il cosiddetto bail in – e quando questo non è possibile per il
rischio di instabilità finanziaria o la gravità della crisi gli
Stati possono sì intervenire, ma seguendo alcune regole di “burden
sharing”, insomma anche i soci delle banche devono pagare.
Sembra bello, finora. Ma
chi sono i soggetti chiamati a pagare? Gli azionisti delle banche,
certo. Ma anche i sottoscrittori delle famigerate obbligazioni
subordinate, insomma coloro che hanno “comprato” capitale di
rischio degli istituti di credito. Si sa che in Italia molto spesso
tra questi ci sono piccoli risparmiatori che sono stati indotti a
farlo dalla pressione dei loro consulenti bancari, senza capire che
così rischiavano i loro risparmi. Già sulla vicenda sono caduti i
risparmiatori di Banca Etruria e le altre banche di provincia. Ma il
caso del Montepaschi è più grosso. Il futuro governo dovrà
scrivere le regole del salvataggio – entrando nell’operazione in
corso, oppure facendone un’altra tutta pubblica – facendo slalom
tra le complicate regole europee e scegliendo “chi” salvare:
tutti i piccoli risparmiatori? Solo quelli che ci hanno perso? Solo
coloro che possono dimostrare di essere stati gabbati? Tutti i
titolari di obbligazioni subordinate, compresi i fondi speculativi?
Ci sono ostacoli tecnici, ma soprattutto due opposte retoriche che si
confrontano – tra le quali i partiti sguazzano senza tema di cadere
in contraddizione. La prima dice che i risparmiatori non devono
pagare mai. Ma in questo caso deve esser chiaro che pagheranno i
contribuenti, tutti noi, tutti coloro che non si sono mai sognati di
avventurarsi in un investimento rischioso. La seconda dice che i
contribuenti non devono pagare mai per la crisi “dei banchieri”.
Ma evita di aggiungere che, se questo rifiuto genera una crisi di
sfiducia nel sistema bancario, pagheremo comunque caro tutti.
Una via di mezzo c’è
ma implica un’assunzione di responsabilità politica, e anche uno
scontento, che il precedente governo non si è voluto sobbarcare. E
che il prossimo, dichiaratamente pre-elettorale, avrà ancora più
remore ad affrontare. Meno grave il rischio per le finanze pubbliche:
il precedente americano – epoca Obama – ha dimostrato che anzi,
entrare nel capitale delle banche quando le quotazioni sono basse,
risanare e uscirne quando i valori sono stabilizzati, può essere
anche un affare per le casse pubbliche.
domenica, 11 dicembre
2016 - Commento scritto per i
giornali locali del gruppo Espresso
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