Isola Emozione (Angelo
Mazzotta editore, 2016) è
un “racconto di racconti”, ideale continuazione di L'isola
Signora – Emozioni in Sicilia,
che Marilena Monti pubblicò per la prima volta nel 1991 e che, da
allora, in tre edizioni, ha incontrato un pubblico crescente di
lettori. Il tema, come adesso, è il rapporto della scrittrice e
cantautrice con la sua grande isola, con i suoi luoghi, i suoi miti,
le sue meraviglie indicibili ed anche, dolorosamente, con gli aspetti
di degrado, di abbandono, di violenza che talora la
contraddistinguono. Isola Emozione è
libro intenso e bello, in cui
Monti attinge quella “semplicità difficile a farsi di cui parla il
poeta”: è strutturato in brevi testi, scritti in tempi diversi
dagli anni Novanta del '900 ad oggi: ricordi, ritorni, situazioni.
“Situazione”
è la parola, leopardiana, che mi pare meglio esprimere la poetica
della Monti: centro del suo racconto e del suo canto (vale anche per
lei “cantu e cuntu”,
caro alla sua amica cantautrice Rosa Balistreri) non sono i “siti”
e neppure l'“io” narrante, ma le avventure dello spirito in
codesti siti capaci di suscitare memorie, di infondere sentimenti e
risentimenti, di produrre speranze e desideri.
Il
breve brano che riprendo, consigliando la lettura dell'intero libro,
rievoca un ricordo d'infanzia, un primo maggio a Castelvetrano. Le
ragioni della scelta non sono difficili da individuare. (S.L.L.)
Il primo maggio di un
anno della mia infanzia, vivevo allora con la mia famiglia a
Castelvetrano, e di buon mattino un vocio festoso, gioioso, e sempre
crescente col passar dei minuti, mi fece accorrere sul balcone.
Sfilavano sotto casa i carretti con centinaia di persone, uomini,
bambini, donne. Tutti con le bandiere rosse in mano e lu maju
(margherite gialle, grandi, che per tradizione, dalle mie parti si
colgono il primo maggio e che perciò vengono chiamate con questo
nome. Un fiore di campo che porta bene, (quello del "m'ama...
non m'ama...") allunga la vita: se il primo maggio ne sfiori i
petali, per quel l'anno non morirai... un po' ovunque, abbagliante,
come il sole! Lo avevano tutti quanti lu maju, in mano, tra i
raggi delle ruote di biciclette e carri, a ornare i finimenti dei
cavalli e tra i capelli, dietro l'orecchio, cucito in collane di ogni
misura, corone ini1 o in braccialetti per i polsi di ragazzi e
ragazze.
Non cera un'automobile:
era tutta per loro la grande via, la grande festa. Tutti cantavano in
coro, "Bandiera rossa trionferà!".
Io non sapevo, non
capivo, ma una frenesia mi prendeva nel vedere quella folla gioiosa,
alle tempie, alle caviglie; le guance rosse. Il mio solo desiderio
era salire su uno di quei carretti tirati a lucido dove non regnava
più la malinconica struggenza dei pomeriggi di fine giugno,
inchiostro di fatica trasfigurato, sublimato, in canto amaro. Erano,
quelli che vedevo, carretti stracarichi di gioia, di corpi serrati,
di certezze. Carretti propiziatori, non poveri e vuoti ma forieri di
fortune tutte da venire. Essere lì, in mezzo a loro, solo questo
avrei voluto.
Corsi dentro. La nonna,
dalle persiane semichiuse, guardava l'interminabile sfilata.
Acchiappai la sua mano per trascinarla sul balcone con me, perché
condividesse la mia emozione grande. Era come se avessi scoperto
qualcosa di prodigioso, non potevo non condividerne con lei, la
meraviglia. Ella che era la sola, in famiglia, a nutrirmi di favole e
storie vere, la mia radice d'ulivo, mi seguì, conoscendo forse già,
tutto il senso del mio fervore. Rimanemmo entrambe, per qualche
minuto in silenzio a guardare quella massa colorata ed euforica, che
intanto era cresciuta, quell'entusiasmo vero, senza ombra di remore,
senza dubbi.
"Chi sono?",
chiesi mentre tutto quel rosso e quel giallo abbacinavano il mio
sangue e la mia fantasia di un entusiasmo sconosciuto e
irresistibile, "dimmi chi sono!", e intanto stringevo la
sua mano con la mia sudata e la trascinavo con me nella mia emozione
stupita affinché anche lei godesse, in pieno, della magnificenza di
quello spettacolo.
"Sono i comunisti",
la nonna sorrise benevola.
Avevano un nome; era come
li conoscessi da sempre. Sapevo già di loro la fatica e il dolore e
la grande capacità frugale dell'auto consolazione, nel canto. Adesso
mi imbattevo nel bagliore della loro fede.
Sono i lavoratori, i
contadini, i braccianti che non possiedono la terra in cui si
ammazzano a lavorare, i comunisti, sì; “E il primo maggio è la
loro festa!”, la nonna ripeté e ancora sorrideva di un sorriso
benevolo.
Ancora di più, chiamati
per nome, mi parvero bellissimi.
2006
Nessun commento:
Posta un commento