Subiaco
In una delle mie tappe
per monasteri, ormai diversi anni fa, ho incontrato padre Giovanni
Sanna, benedettino approdato al monastero all’età in cui i nostri
connazionali, raggiunta la pensione, sono incerti se andare a
occupare la panchina ai giardinetti o farsi l’ultimo giovanilistico
tour di assaggio del mondo in qualche spiaggia cubana.
Apparentemente la sua
decisione di farsi monaco, a 70 anni, si infila come un imprevisto
tornante in una vita andata in tutt’altra direzione: «Ero tornato
in Sardegna, la mia isola, dopo una vita che in mezzo secolo mi aveva
fatto conoscere qualche spicchio di mondo: dalla Roma degli anni
Cinquanta, quella della Dolce vita e delle Olimpiadi, alla
Parigi di Pierre Cardin con cui ho lavorato, prima nel suo atelier
e poi occupandomi delle boutiques
della sua maison a Hong Kong,
a Tokio e a Manila dove, per un certo periodo, sono stato il sarto di
fiducia di Imelda Marcos che, nota per collezionare scarpe a gogò,
non era meno esigente quanto ad abiti...».
Dal gregge a
bottega
Se si insiste, e le
incombenze che lo impegnano al Sacro Speco di Subiaco gli consentono
una pausa, srotola un po’ di scene del film che sembra riassumere
un’intera vita: è ultimo di otto figli di un pastore che, proprio
nell’anno in cui lui viene al mondo, il 1933, perde per un’epidemia
l’intero gregge. Dunque povertà severa come regna allora nei
piccoli paesi dell’Oristanese ma, in famiglia, la serenità dei
giusti e il lavoro come salvezza. Giovanni Scanu, il sarto di
Narbolia, il minuscolo paese natale, è il suo primo maestro. Trova
che il piccolo Giovanni Sanna con ago e filo ci sa fare e convince la
famiglia a mandarlo a bottega ad Oristano, da Giuseppe Cuveddu, che a
Torino, decenni prima, è stato un eccellente maestro di taglio.
Altra conferma del suo talento: «Tu devi saltare il mare - gli
intima il professore di taglio - qui saresti sprecato».
Al ragazzo il coraggio
non manca e così arriva a Roma, stretto in un cappottino che la
pioggia autunnale ha ristretto un po’ troppo: «Non ti presenti
bene, ragazzo...», gli dicono in una sartoria dei Parioli dove ha
bussato cercando lavoro. «L’abito non fa il monaco», replica
pronto Giovanni che già allora non si lascia intimidire.
Per farla breve: di
sartoria in sartoria finisce col lavorare al top degli atelier
romani, quello delle sorelle Fontana. Dalle sue mani escono gli abiti
di tante celebrità e i costumi di scena, ad esempio, di Ava Gardner,
impegnata oltre che a girare la Bibbia, a smarcarsi da Frank Sinatra
ingaggiando una rovente love story con Walter Chiari.
A Irene Brin, la celebre
giornalista che raccontava in modo insuperabile la mondanità di
quegli anni, Giovanni confeziona una magnifica redingote: «Lei,
felicissima, mi supporta con calore. Mi consiglia libri da leggere e
mostre da vedere. Insiste perché io faccia un salto ulteriore: a New
York, a Parigi...». Giovanni però a Roma si trova bene. Non si
perde un’opera lirica anche se la sua passione è il cinema tanto
che si candida a Lascia o Raddoppia?, esperto di film italiani
anni Trenta e Quaranta.
Invece del telequiz con
Mike Bongiorno arriva la prova più difficile: a Parigi, nell’atelier
di Pierre Cardin. Due palazzine in Rue de Faubourg Saint-Honoré dove
sono all’opera cinquecento lavoranti, il meglio della haute couture
di Francia. Al piccolo sardo appena giunto da Roma affidano un
modello di lino riuscito male: «Era un lavoro maledettamente
complicato, tutto giocato di sbieco e da rimodellare completamente
nella notte». All’indomani, infatti, la collezione è da
presentare a dei compratori americani.
C’est pas mal
Mademoiselle Danielle che
regna sui reparti della sartoria alle prime ore dell’alba scruta il
lavoro appena finito: «C’est pas mal, le petit italien»,
sentenzia, prima di affidare l’abito alle indossatrici. Alla
sfilata gli americani applaudono: il modello piace e ne prenotano 250
capi. Pierre Cardin, attento a tutto, vuole sapere chi è l’artefice
dell’insperato miracolo: così conosce Giovanni, il nuovo venuto.
Lo soppesa e gli dice: «Tu da qui non te ne andrai mai...». In
realtà poi, quando è arrivato il momento, gli lascia prendere il
largo con le boutiques della maison in Asia. Dunque Tokio e Hong
Kong. E la Manila della signora Marcos.
Passano gli anni. Il film
di una vita sembra essersi srotolato tutto, mentre, tornato da Tokio,
Giovanni si gode la bella casa col mare di Sardegna davanti che lo
aspettava da tempo. Manca ancora il finale. Tra i ricordi degli anni
romani c’è una veloce puntata a Subiaco, al monastero di Santa
Scolastica. Racconta padre Giovanni: «Avevo parlato per pochi minuti
con un monaco, si chiamava padre Joseph. Gli chiesi da quanto tempo
era lì.
- 48 anni.., mi rispose.
- Che bello! fu la mia
replica, piuttosto banale.
- Bello? E allora perché
non viene e prova?
- Lo farò. Mi dia tempo
e vedrà che lo farò.
Senza fretta
Nelle vite felici gli
appuntamenti imperdibili non hanno fretta. Si prendono tutto il tempo
necessario per andare a compimento. Ad esempio “Paddy” Leigh
Fermor, tra il viaggio a piedi lungo l’Europa negli anni Trenta e
il primo resoconto che ne fa nel radioso Tempo di regali, frappone
una trentina di anni. E una ventina di anni dividono il “continua”
sull’ultima pagina di Tempo di regali dalla ripresa, in Fra i
boschi e l’acqua, del racconto di quel cammino, dal quale forse
Fermor non si è mai davvero staccato. Qualcosa di simile deve essere
accaduto anche a Giovanni che, mezzo secolo dopo, ritorna a Subiaco e
chiede di diventarvi monaco. Lo è dopo tre anni di noviziato. Ora
indossa la tonaca benedettina per sempre. Quell’abito cambia
qualcosa?
«È come vivere dentro
una luce diversa», risponde tranquillo con un sorriso.
Verrebbe voglia di
credergli. E, prima o poi, provare.
Pagina 99, 12 agosto 2016
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