Franco Fortini (in camicia bianca) alla Olivetti |
Oggi, 28 novembre, è un
giorno di dolore.
È morto Franco Fortini,
uno che ho sempre pensato e immaginato giovane.
Tempo fa, quando morì
Cesare Luporini, non avrei mai creduto che quella morte mi avrebbe
tanto turbato. Luporini era un comunista istituzionale (senatore,
figurarsi), proveniente dall'esistenzialismo anni Quaranta e dalla
filosofia di Gentile (infinite sono le vie del Signore). Il motivo
del mio turbamento era egoistico, un rimorso; passavano i giorni e
mai trovavo il tempo per ringraziarlo del suo ultimo libro, su
Leopardi. Negli ultimi anni non pensava ad altro. Era diventato un
signore elegante, sempre più elegante, un gran signore dal volto
aguzzo alla Casanova e con la fissazione di Leopardi.
Ma che c'entra Leopardi,
adesso? Se si tratta di rimorsi, nei confronti di Fortini i miei
rimorsi non si contano: si ammucchiano, si sorpassano, in gara a chi
arriva primo. Perché non affronto la verità e non dico chiaramente
a me stesso che Franco Fortini non c'è più? Ho così paura del
mondo di oggi e della mia vecchiaia? I comunisti muoiono. Era tutta
gente poco più grande di me. Avevano vent'anni al tempo della
Resistenza e della Liberazione. Ma Fortini non è mai stato un vero
comunista, anche se una delle sue poesie dice: "Sempre io sono
stato comunista", o qualcosa del genere. È una bella poesia,
bello anche canticchiarsela oggi che tutti dicono che il comunismo è
morto. Povero Fortini! Era sempre in lite con il mondo, sempre in
prima linea. Sempre a raddrizzare il mondo, sempre pedagogo. Aveva la
rettitudine di Catone e tutte le virtù di Bruto. Ma era solo, il più
solo di tutti. Che viaggio è stato il suo! Non è mai stato
comunista perché era solo. Non era come Luporini, tutt'altro; non
era un politico, non era uomo né di parte né di potere. Era un
perdente, un eterno perdente; di quelli che provocano, che abbaiano,
che non si sporcano, che hanno sempre la coscienza lavata, più
bianca del bianco. È stato ascoltato soprattutto tra il Sessanta e
il Settanta, un po' prima e un po' dopo il Sessantotto. Molti giovani
sarebbero morti per lui, come si può morire per Catone o per Bruto.
Ha cominciato a diventare poeta, secondo me, col tempo, invecchiando.
Le poesie che ha scritto negli ultimi anni sono bellissime. Per
esempio: Se volessi un'altra volta
queste minime parole/sulla carta allineare (sulla carta che non
duole),/il dolore che le ossa già comportano/si farebbe troppo
acuto, troppo simile all'acuto/degli uccelli che al mattino tutto
chiuso tutto muto/sull'altissima magnolia si contendono./Ecco scrivo,
cari piccoli. Non ho tendine né osso/che non dica in nota acuta: '
più non posso' ./Grande fosforo imperiale, fanne cenere. Gran
poesia (i comunisti muoiono).
La verità è che Fortini
era un grande letterato, un letterato che, ogni tanto, come Giuseppe
Parini, Alessandro Manzoni o Vincenzo Monti, scriveva delle poesie
bellissime e insuperabili. Solo che questo letterato incallito, con
tutti i vizi, le qualità, le vanità dei letterati, è stato
visitato un giorno dalla politica così come Cristo si è fatto
visitare dal demonio. Negli anni in cui Fortini era giovane, era
impossibile non farsi tentare. Marx, Lenin, Brecht, Togliatti,
Vittorini, Pasolini, la Olivetti, il Sessantotto, che pasticcio!
Sempre qualche metro più a sinistra della sinistra, e sempre a un
palmo da terra. Fortini incarnava la sinistra a oltranza, la sinistra
come eterno richiamo utopico, la sinistra come eterna funzione della
"poesia" (se potesse leggermi mi scannerebbe). La politica
è stata la sua selva oscura, la grande boscaglia dove si è perso. È
stata il suo vanto, il suo onore, ma anche il suo "errore".
Fortini lo sapeva, in quei momenti di chiarezza che lo afferravano in
mezzo alle onde della confusione e della complicazione. Ho sotto gli
occhi Attraverso Pasolini, uno dei suoi ultimi libri, uno di
quei brutti coriandoli o gettoni einaudiani che imitano l'editoria
bulgara o rumena, l'editoria oltre cortina quando la cortina non c'è
più. Ma bisogna leggerlo. Quello che sembrava oscuro, arduo,
difficile, il tempo lo ha reso chiaro. È un libro bellissimo. Per
tutta la vita, Pasolini è stato il vero, grande interlocutore e
antagonista di Fortini: il rivale per antonomasia, nel senso di un
famoso titolo di Cassola. L'antagonista è colui che ci supera e ci
assomiglia, il nostro gemello, il nostro infausto signore di
Ballantrae: colui che è come noi, uguale a noi, e che, inferiore
alla nostra intelligenza, ma a nostro eterno scorno, arriva sempre
prima di noi, un centimetro prima di noi, e va in giro portandosi e
palpandosi in tasca la pietra filosofale che a noi manca. Quel che
faceva Pasolini, Fortini lo vedeva un istante prima di lui; ma lo
vedeva e basta. Ci tornava su dopo, a ragionarci intorno passato il
momento, quando il mondo aveva già cambiato pagina e direzione.
Pasolini arrivava da A a Q o a Z in un lampo, per la strada più
diretta; Fortini andava a zig zag e impiegava ore. Era un
dodecafonico della letteratura: per suonare la sua musica doveva
passare per tutte le lettere dell'alfabeto e suonarle tutte, nessuna
esclusa. Ogni poeta ha il suo stile. Quel che c'è di buono in
Pasolini lo si vede subito, e lo capiscono tutti. La musica di
Fortini è più nascosta, più segreta, più difficile. Strano, la
sua è veramente una musica "per soli uomini", per addetti
ai lavori. Era il suo paradosso. Parlava solo a se stesso, mentre la
politica avrebbe dovuto insegnargli la semplicità, e a comunicare
con tutti. Ma il tempo lo aiuterà. Tra qualche giorno, il 4
dicembre, a Fortini sarà assegnato il premio Pozzale Luigi Russo per
il suo ultimo libro, Composita solvantur. È un titolo che
dice tutto, è quasi una preghiera. Il tempo, che tutto scioglie,
sicuramente la esaudirà.
“la Repubblica”, 29
novembre 1994
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