Mi è capitato più volte
di dichiarare, e di scrivere, che non ho testa di storico e difatti
appena mi trovo davanti a qualche vecchia carta che suscita il mio
interesse, invece di tuffarmi in biblioteche e archivi per ricercare
pezze d’appoggio, conferme e smentite, parto per una tangente
d’invenzione e di fantasia che niente ha da spartire col doveroso
rigore storico. Allora perché mi trovo a parlare, a modo mio
s’intende, di Francesco Calogero Ingrao? In primo luogo perché
egli appartiene a quei siciliani che tentarono di cambiare con lo
scopo dichiarato di cambiare veramente tutto e non a quelli che
dicevano di cambiare per non cambiare niente del tutto, secondo
l’idea che il nipote Tancredi esprime al principe di Salina e che
avrà fortuna mondiale.
A tentare di cambiare
veramente non sono i nobili siciliani. Il loro tragicomico agire
durante lo sbarco dei briganti garibaldini, rappresentando questi
nobili il vero potere basato sulla ricchezza, farà si che la Sicilia
uscirà quasi subito dal flusso della Storia. In quello splendido
romanzo che è I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello, una
specie di summa della delusione storica e culturale
post-risorgimentale in Sicilia (ma anche in Italia), viene narrato
che il principe don Ippolito Laurentano, per attestare la sua fedeltà
al Regno delle Due Sicilie, allo sbarco di Garibaldi s’asserraglia
nel suo feudo di Colimbetra guardato da venticinque uomini in divisa
borbonica comandati da un caporale promossosi capitano, Sciaralla.
Quando questo Sciaralla usciva da Colimbetra a cavallo di una
decrepita giumenta bianca, uno scapestrato giovane gli cantava
dietro:
Sciarallino,
Sciarallino,
dove vai con tanta
boria
sul ventoso tuo
ronzino?
Sei scappato dalla
Storia,
Sciarallino,
Sciarallino?
Ecco, su quella decrepita
giumenta dalla Storia non scappava solo Sciaralla, ma scappavano
tutti i principi, i marchesi, i duchi, i baroni siciliani, tutta la
nobiltà scappava dalla Storia rifiutando di contribuire a ogni
possibile sviluppo, a ogni possibile progresso. Quelli che non
montarono sulla giumenta e disperatamente tentarono di cangiare lo
stato delle cose non erano nobili, ma appartenevano qualche volta
alla media e assai più spesso alla piccola borghesia, erano
avvocati, medici, piccoli proprietari.
Essi si trovarono a
combattere su più fronti. Contro i borbonici di sempre, contro i
preti che perseguivano una loro costante e sotterranea politica
antitaliana, contro i disillusi postunitari per le mancate attuazioni
delle promesse di Garibaldi (Grotte, il paese di Francesco Ingrao,
voleva cambiar nome e chiamarsi Garibaldi, ma il prefetto, o quello
che era, non autorizzò), contro il governo e le sue forze
dell’ordine, contro la dissennata politica economica del governo
italiano, che nei riguardi della Sicilia si traduceva in un costante
ampliamento della povertà da una parte e, dall’altra,
politicamente, in un rigurgito di sentimenti antiunitari.
Il cahier des
doléances non è un quaderno, ma un tomo alto e spesso, nel
quale si può cogliere fior da fiore. Scegliamone qualcuno.
Il raddoppio dell’imposta
fondiaria, appena cinque anni dopo l’Unità, dal 10 al 20%. Il che
comportò, tanto per fare un esempio, che a Chiaromonte Gulfì, in un
solo anno, andarono all’asta ben 129 medie e piccole proprietà e
che a tutti i contadini insolventi anche per cifre inferiori a lire 5
vennero espropriati e messi all’asta i campicelli, gli orti che
erano la loro unica fonte di sopravvivenza. Il dazio sui consumi,
dopo appena un decennio, pesò sui cittadini dei comuni siciliani il
6,22% (in Lombardia si fermò al 2,88). La tassa di famiglia in
Sicilia rese allo Stato, nel 1880, 1.528.000 lire. Dalla Lombardia
invece vennero solo lire 637.000. La tassa sulle bestie da soma dalla
Sicilia rese, nello stesso periodo, 653.000 lire. Dalla Lombardia
lire 17.000 (sid). L’odiata tassa sul macinato, che Garibaldi si
affrettò ad abolire appena messo piede a terra a Marsala, venne
ripristinata la settimana appresso, riabolita, rimessa e aumentata.
In meno di un decennio, gli oltre quattromila telai in funzione si
ridussero a meno di un terzo.
Poi ci fu la faccenda
gravissima dell’introduzione della leva obbligatoria, inesistente
coi Borboni. La leva obbligatoria, dalla quale era esentato chi era
in grado di corrispondere una congrua cifra e che durava anni, si
risolveva sostanzialmente in un’altra gravosa tassa sulla povera
gente e sul bracciantato agricolo. Alle famiglie venivano portate via
braccia-lavoro preziosissime perché nel pieno delle forze. Un
grafico riportato nella Storia economica della Sicilia di Di
Stefano e Oddo, visibilmente dimostra lo spaventoso decremento delle
nascite: non si facevano più figli perché tantose li pigliava lo
Stato. I coscritti erano accompagnati al Distretto dai familiari
vestiti a lutto come per un funerale.
Poi c’era la continua
provocazione, non saprei come altrimenti chiamarla, dello
stravolgimento delle leggi che potevano portare un minimo di
beneficio ai contadini. Un esempio lampante ne è la legge preparata
da Friscia in base alla quale i terreni di proprietà ecclesiastica,
sui quali era stata applicata l’enfiteusi forzosa, venivano
assegnati ai contadini in base al sorteggio. Nella discussione alla
Camera, prevalsero invece le tesi di Ugdulena e di Corleo, siciliani
si badi bene, i quali sostennero testualmente che la proprietà
terriera non era buona per coloro che non avevano i mezzi per
coltivarla e che non si poteva dar terreno a basso costo ai
nullatenenti. E così il provvedimento, concepito come strumento
popolare a favore dei contadini, si stracangiò in uno strumento
borghese di arricchimento e di accumulazione.
Poi ancora c’era, e
violenta, la repressione del cosiddetto brigantaggio. Non mi dilungo
sull’argomento, ma uno specchietto del 1865, a cura del Comando di
Capua, specifica la condizione sociale dei ‘briganti’ giudicati
(degli oltre 1500 ammazzati non fa parola). Studenti ed esercenti
arti liberali: condannati 19, assolti o rimessi ad altra
giurisdizione 43. Operai: 73, 248. Negozianti: 18, 220. Contadini:
717, 2420. Possidenti: 93, 947. Cocchieri, facchini: 14, 62.
Religiosi: 50, 5. Senza professione: 42, 465. Vi par proprio che sia
1 ideale composizione di bande di briganti? Va ripetuto che i
cosiddetti briganti nella gran parte non arrivarono a giudizio,
vennero fucilati prima senza processo, secondo l’ordine di
Minghetti ai suoi generali di spargere nel Sud, e non solo in
Sicilia, un «salutare terrore. E l'ordine del generale Dalla Chiesa
(il nonno di Carlo Alberto Dalla Chiesa) ai suoi uomini è, su questa
linea repressiva, illuminante: «Mettete a fuoco le case dei
contadini, dentro vi troverete più fucili che pane».
Scrive e sintetizza così
Pirandello, sempre ne I vecchi e i giovani, quello che capitò
in Sicilia negli anni della ribellione e dell’attività cospirativa
di Francesco Calogero Ingrao: “E qual rovinio era sopravvenuto in
Sicilia di tutte le illusioni, di tutta la fervida fede, con cui
s’era accesa alla rivolta! Povera isola, trattata come terra di
conquista! Poveri isolani, trattati come barbari che bisognava
incivilire! Ed eran calati i continentali a incivilirli, calate le
soldatesche nuove, quella colonna infame comandata da un rinnegato,
l’ungherese colonnello Eberhardt, venuto per la prima volta in
Sicilia con Garibaldi e poi tra i fucilatori di lui ad Aspromonte, e
quell’altro tenentino savojardo Dupuy, l’incendiatore, calati
tutti gli scarti della burocrazia, e liti e duelli e scene selvagge,
e la prefettura del Medici, e i tribunali militari, e i furti, gli
assassinii, le grassazioni, orditi ed eseguiti dalla nuova polizia in
nome del Real Governo e falsificazioni e sottrazioni di documenti e
processi politici ignominiosi, questo il primo governo della Destra
parlamentare!”.
Vorrei anche aggiungere
che l’altro motivo che mi ha spinto a parlare di Francesco Ingrao è
che il suo secondo nome è Calogero. Non è il caso di sorridere:
anche il mio secondo nome è Calogero. San Calogero è, da tempo
immemorabile, il santo più amato dalla povera gente, da quella
miserrima, malata, senza speranza, in tutta la provincia di Agrigento
(ai tempi di Francesco Calogero, Girgenti). Dare al proprio figlio,
quale secondo il nome di san Calogero, significa per lo meno vocarlo
a una particolare attenzione ai diseredati, agli umili, agli
oppressi. Non mi dilungherò nell’a-giografia, vi dirò solo che
dal 1946, al mio paese, Porto Empedocle, la statua del santo è
tenuta non in Chiesa, ma nella Casa degli scaricatori portuali e da
lì esce per essere portata in chiesa nel giorno d’inizio della sua
tumultuosa, popolarissima festa. Nei primi anni del secondo
dopoguerra il simulacro del santo, di pelle nera, stava tra due
ritratti: quello di Stalin e quello di Giuseppe Di Vittorio.
§
Francesco Calogero Ingrao
nasce nel gennaio 1843 da una famiglia borghese di idee «cautamente
democratiche», come scrive Cantarano nel suo saggio introduttivo, a
Grotte, in provincia dell’allora Girgenti. Grotte, con i limitrofi
Comitini, Favara, Aragona, faceva parte, a metà dell’Ottocento,
del più grande bacino zolfifero siciliano. Un’inchiesta di
Vittorio Savorini sulle Condizioni economiche e morali dei
lavoratori nelle miniere di zolfo, che risale a quando Ingrao è
nel pieno della sua attività politica, ci dice che nelle 72 miniere
prese in considerazione lavorano 69 capi-mastri, 110 tra catastieri,
pesatori e scrivani, 956 picconieri, 2626 carusi, 114 donne. La media
dei salari giornalieri era la seguente: capimastri lire 3, picconieri
lire 2, donne 0,70 centesimi, carusi da 7 a 15 anni centesimi 0,85
(ma alcune miniere pagavano anche 0,35 centesimi o lire 1,25 oltre
gli undici anni d’età).
I carusi erano
bambini, in gran parte dai 7 ai 12 anni, che dalle profondità delle
gallerie portavano a spalla fino all’aperto, al posto di fusione, i
sacchi contenenti lo zolfo estratto. Essi erano uno strumento del
picconatore (pirriaturi, in dialetto) alla stessa stregua del
piccone e della pala. Questi bambini schiavi venivano ceduti dalle
famiglie ai picconatori con un sistema detto «soccorso morto»,
consistente nell’anticipare al massimo cento o duecento lire alla
famiglia avendone in cambio l’uso del bambino. Scrive Savorini: “È
a causa di questo preesistente debito che il caruso non riceverà
altro che acconti e quel che è peggio quasi sempre in natura, che
sono tra gli zolfatai chiamati spesa, e consistono in farina di
grano, in olio e spesso in solo pane. E questi generi, sempre di
pessima qualità, sono poi conteggiati a un prezzo superiore.
Dal lavoro in miniera, il
caruso resterà segnato per tutta la vita. Oltre a subire
innumerevoli abusi sessuali non denunziati e violenze d’ogni tipo,
lo schiavo caruso comincia a patire di malattie agli occhi, di
rachitismo, di deviazione della colonna vertebrale. Riporto una
tabella dal Savorini che riguarda la leva del 1875 nei quattro paesi
che ho citato, Grotte, Favara, Comitini, Aragona. Iscritti alle
liste: 482; zolfatai 203; Abili 81; Inabili (tutti appartenenti al
distretto minerario): 6 per gracilità, 6 per deviazione della
colonna vertebrale, 52 per rachitismo. Gli altri, rivedibili. Un
altro specchietto interessante dello stesso periodo ci fa conoscere
che a Grotte quelli che sanno leggere e scrivere anche
rudimentalmente sono il 17,07%, a Favara il 22,06, a Comitini il
33,03 e ad Aragona il 14,09.
Questo il contesto nel
quale opera l’impegno politico di Francesco Calogero Ingrao,
mazziniano, massone, cospiratore. Nel 1863, ventenne, fonda col
fratello e altri studenti liceali a Girgenti una società segreta
massonica, «I Discepoli di Dante». Giustamente Cantarano sottolinea
nel saggio introduttivo come nel documento costitutivo della società
sia particolarmente sottolineata l’attenzione da riservare alle
donne e ai fanciulli, «nonché — scrive Cantarano — al ruolo che
l’educazione può svolgere per il progresso sociale e civile del
popolo». E i fanciulli che Ingrao ha in mente sono certamente i
carusi delle miniere. Non gli usciranno più dalla memoria,
cercherà per loro ogni mezzo di riscatto. Ancora nel 1884
sottoscriverà una proposta lanciata da un giornale di Comitini, «La
Sigaretta», per la costituzione di una banca privata che possa
impedire la vendita dei carusi elargendo modeste somme alle famiglie,
fatto l’obbligo, però, che questi fanciulli possano studiare,
invogliati anche da piccoli premi in denaro.
Dunque il giovanissimo
studente cospiratore pone al centro del suo interesse la promozione
del ruolo della donna nella società e la fondamentale importanza
dell’istruzione: due temi che, assieme al suffragio popolare
tornano interi nel libro che scrive nel 1876, La bandiera degli
elettori italiani, quando oramai non è più un rivoluzionario
ricercato dalla polizia ma il sindaco riformista di Lenola, il paese
dove ha messo su famiglia. Voglio dire, in altre parole, che lo
sguardo di Francesco Calogero Ingrao è uno sguardo che non si limita
al presente, ai problemi contingenti, ma spazia con lucidità e
coerenza, al possibile futuro delle classi più povere. E non con
modi astratti o utopistici. Francesco Calogero Ingrao, a differenza
di altri, si muove con i piedi per terra. Cerca subito i collegamenti
giusti, si lega d’amicizia col medico Saverio Friscia, figura
prestigiosa della sezione siciliana dell’Internazionale e futuro
deputato al Parlamento.
La vita di Ingrao sembra
essersi svolta in due parti.
La prima contempla
cospirazioni, latitanze, arresti, accuse anche gravi quali
«congiurare la forma di governo ed eccitare i cittadini contro i
poteri dello Stato» e di «omicidio volontario consumato e omicidio
volontario mancato» per l’uccisione di un carabiniere e il
ferimento di un altro. La seconda parte è una sorta di distacco
dalla politica che non significa però disimpegno. Caduto Minghetti e
andata al potere la sinistra, il neopresidente Depretis pronuncia il
suo primo discorso e sembra accogliere quasi tutte le istanze di
Ingrao: abolizione della tassa sul macinato, istruzione elementare
gratuita, estensione del suffragio popolare, più ampia autonomia
alle amministrazioni comunali. Talché l'Apostrofe alla Sinistra,
che chiude La bandiera degli elettori italiani, oltre ad
essere una sorta di intenso memorandum sui compiti che attendono la
Sinistra, è una specie di passaggio del testimone. «Una calma è
sottentrata negli animi agitati - scrive Ingrao - e ogni amico del
progresso sente il dovere di attendere e sperare.»
Quanto sarà stata lunga
l’attesa d’Ingrao? Quanto forte la speranza? Che accade intanto
nella sua Sicilia dove continua a battere il suo cuore? Cito ancora
Pirandello, da I vecchi e i giovani. “E poi era venuta la
Sinistra al potere, e aveva cominciato anch’essa con provvedimenti
eccezionali per la Sicilia, e usurpazioni e truffe e concussioni e
favori scandalosi e scandaloso sperpero del denaro pubblico;
prefetti, delegati, magistrati messi al servizio dei deputati
ministeriali, e clientele spudorate e brogli elettorali, spese pazze,
cortigianerie degradanti, l’oppressione dei vinti e dei lavoratori,
assistita e protetta dalla legge, e assicurata l’impunità agli
oppressori...”.
No, meglio proteggersi da
nuove e forse non più sopportabili disillusioni, meglio non sentire
che nella sua Grotte più di mille minatori hanno fatto sciopero,
sono scesi in piazza, meglio far finta di non sapere che sempre nella
sua Grotte si è costituito il Fascio dei lavoratori, il
diciannovesimo tra i 177 Fasci siciliani. Meglio immergersi e
perdersi nella concretezza quotidiana dell’amministrazione
comunale, meglio, assai meglio, dare gratis ai bambini poveri di
Lenola i libri di scuola perché, almeno loro, possano studiare,
imparare, crescere, vivere da uomini.
“la rivista del
manifesto”, n. 20, settembre 2001 - Il testo riproduce la
presentazione del volume di Francesco Ingrao (La bandiera degli
elettori italiani, Sellerio 2001) pronunciata da Andrea
Camilleri, il 26 giugno 2001, alla Casa delle Letterature, in Roma.
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