L’impegno
sociale e civile è stato una costante nella vita della neurologa
premio Nobel, scomparsa il 30 dicembre. Un appassionato ricordo di
chi l’ha incontrata e ha lavorato con lei alla Enciclopedia
Treccani e durante la costituzione dell’Osservatorio Antigone sulle
carceri.
Non le sarebbero del
tutto piaciute le pur giuste e nobili parole che la ricordano e la
rimpiangono in questi giorni. Considerava il lungo percorso della sua
vita come pieno di soddisfazioni, ma anche come qualcosa che si
sarebbe conclusa senza rimpianti. Non si pensava eccezionale, anche
se non poteva sfuggirle l’attenzione positiva che tutti le
rivolgevano quando prendeva la parolapubblica, quando andava
inlaboratorio o semplicemente passava per la strada: in particolare,
quando per visitare unapersonaamica, entravain un ambiente
ospedaliero e trovava un mondo che si metteva in subbuglio per la sua
presenza. Lei era schiva e non amava i modi cerimoniosi, ma aveva
anche quel tanto di vanità che oltre a farle mantenere sempre una
signorilità nel portamento, la portava a considerare eccezionale il
suo percorso: dalla determinatezza nella scelta dell’ambito di
studio, alla tenacia dei laboratori improvvisati, alla capacità di
costruire gruppi coesi e cooperativi d’indagine scientificaovunque
avesse lavorato, fino ai riconoscimenti. Sia scientifici, sia civili
e di alta visione umana.
Una fede laica
I commenti per la sua
scomparsa si soffermano sugli aspetti altissimi del suo contributo
scientifico e sul suo desiderio di vedere la ricerca come processo di
cui non considerarsi mai padroni: taluni avviano un progetto, altri
lo consolidano con apporti continui, altri ancorane impongono un
salto in avanti attraverso intuizioniesco-perte, per poi affidare a
una nuova generazione la possibilità di costruirne la catena degli
effetti, molti anche imprevedibili. Un po’ come di un iceberg
dicuisiè raggiuntalaparte emersa e si scopre viavia quanto non sia
affiorato fuori delle acque. Di questo Rita Levi Montalcini era
consapevole, quando con una luce brillante in quegli occhi che
l’avevano traditanegli ultimi anni, raccontava gli sviluppi
dell’impiego del Nerve Growth Factor in varie direzioni e
soprattutto nel possibile rallentamento e forse cura futura della
malattia di Alzheimer. Una malattia di cui vedeva la connessa
sofferenza relazionale anche in persone a lei vicine e amiche,
intravedendo le possibilità offerte da quella sua scoperta che
l’aveva portata all’onore del Nobel. Era infatti proprio il
possibile impiego sociale del suo impegno scientifico a essere per
lei il motore nel proseguire e anche il significato da lei attribuito
ai riconoscimenti che con continuità riceveva. Perché la dimensione
scientifica è stata per lei sempre congiunta ad altre due
dimensioni: quella della necessità della promozione della conoscenza
e quella dell’impegno sociale.
Tre aspetti, il rigore
scientifico, la conoscenza diffusa, l’impegno per le realtà
svantaggiate che per lei hanno sempre camminato di pari passo. E se i
risultati del primo sono a tutti noti e visibili, poco forse ci si è
soffermati in questi giorni di ricordo sugli altri due aspetti che
pure per lei erano essenziali e di pari dignità. Di questi ho avuto
personalmente esperienza diretta, in un rapporto di amicizia
sviluppatosi negli anni.
L’attenzione
all’istruzione e allaco-struzione di conoscenza diffusa nel paese è
all’origine del nostro incontro, quando lei, nominata Presidente
dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani aveva avviato
un’operazione di rinnovamento di quella realtà, modificandone
alcuni assetti, dando responsabilità a persone più giovani e capaci
d’introdurre elementi innovativi e guardando con attenzione al
compito dell’Istitutonelprocesso di crescita culturale nelpaese. Da
qui, la volontà di avviare un protocollo d’intesa con il Ministero
della pubblica istruzione, alloraretto da Luigi Berlinguer, per una
serie di servizi da offrire alle scuole, in primo luogo una rivista
di aggiornamento per i docenti e di accompagnamento nel loro lavoro,
che lei teneva a qualificare come uno dei più importanti in assoluto
per la crescita del paese. Mi chiamò a dirigere la rivista, su
proposta del nuovo direttore editoriale da lei nominato, Massimo
Bray, e si avviò il lavoro di un settore rivolto alla scuola,
rinverdendo attenzioni che in passato l’Istituto aveva avute e che
si erano andate affievolendo: un settore che opera ancora oggi. Con
curiosità e precisione seguì i passidiquelpercorso, mentre
parallelamente avviò un’altra impresa, volta a utilizzare il
patrimonio di conoscenze di cui la Treccani era ed è depositaria,
verso i più giovani, cioè i ragazzi delle scuole medie. Ne nacque
una Enciclopedia dei ragazzi, curata nella realizzazione da un altro
amico a lei caro nonché esperto di scienza, trasmissione dei suoi
contenuti e scuola: Andrea Turchi.
Questo il primo ambito
d’impegno che dava una connotazione specifica al suo percorso di
scienziata: il non chiudersi in quel laboratorio in cui pur
trascorreva tanto tempo della sua vita, ma porsi il problema di come
la scienza e la cultura divenissero nel concreto il sale di una
complessiva emancipazione. Un impegno che aveva una naturale
consonanza con l’attenzione che lei rivolgeva ai giovani nella sua
attività scientifica, facendoli essere compartecipi di un processo e
non meri assistenti di una grande scienziata.
L'incontro con
Antigone
L’incontro di allora fu
da subito produttivo di un altro ambito di lavoro comune a cui lei ha
dedicato molto tempo ed energie: il carcere. Era parte di un afflato
civile e sociale che era stato da sempre una sua caratteristica e che
verso la seconda metà degli anni Novanta si intensificò per poi
divenire ancora più esplicito quando lei ebbe un ruolo istituzionale
con la nomina a senatrice a vita. Nel 1996, nelle speranze di
cambiamento che accompagnarono il cambio di passo del Parlamento e
l’avvio del governo Prodi, entrò in contatto stretto con
l’associazione Antigone che io e altri avevamo fondato un po’ di
anni prima. Il carcere e le sue condizioni erano già allora fuori
dal solco definito dalla Costituzione, seppure con numeri e problemi
inferiori agli attuali, soprattutto per un trend che ne andava
mutando la fisionomia rendendo la pena una realtà senza progetto
destinata soltanto a recludere persone prive si supporto sociale,
sulla base di norme che avevano imboccato la linea strettamente
punitiva del possesso e del consumo di sostanze stupefacenti e che
avevano introdotto la privazione della libertà degli stranieri
irregolarmente presenti nel nostro paese. Il carcere diventava
progressivamente l’affollato teriitoiio del «non visto» della
nostra società, là rinchiuso senza un credibile progetto di ritorno
positivo.
Rita Levi Montalcini
volle che la Treccani, luogo rappresentativo dell’alta cultura,
diventasse il luogo di un affollatissimo convegno sulla pena, sul
carcere e sulle riforme possibili. Era il 1996 e quel convegno,
dall’emblematico titolo «Il vaso di Pandora», fu un cantiere di
progettazione con una serie di interventi, poi ripresi in un omonimo
volume che l’Istituto pubblicò. Il gruppo delle persone chiamate
allora a discutere fu notevole, perché oltre a lei e all’allora
ministro Flick, l’introduzione fu fatta da un saggio del Cardinale
Martini che per la prima volta introdusse per la pena detentiva
quella locuzione extrema ratio, poi ripresa e abusata negli
anni anche da coloro che tutto facevano meno che ridurre il ricorso a
essa.
Colpisce rileggere i nomi
di quanti intervennero, da giuristi (Ferrajoli, Baratta, Moccia,
Pavarini, Resta, Melossi, Mosconi, Margara, Anastasia, solo per
citarne alcuni) a esponenti politici, alcuni allora forse meno in
evidenza di oggi (Bersani, Finocchiaro, Mannuzzu, Corleone), a
rappresentanti dell’Amministrazione penitenziaria e delle
associazioni. Le conclusioni, come linee programmatiche da porre al
Parlamento che apriva la nuova legislatura, vennero affidate a due
relazioni, una di Giuliano Pisapia e una mia.
La visita in
carcere
Nel suo intervento lei
scrisse allora: «La collettività spesso invoca il carcere, le cui
mura chiuse e la cui distanza sembrano l’unica soluzione capace di
attenuare il sentimento d’insicurezza che la domina, per
l’illusione che esso suscita: dare la possibilità di rinchiudere
il male e di non dargli più voce. Ma, proprio chi è fuori dal
carcere deve considerare chi vi è rinchiuso come parte della
società, deve con il carcere e con l’umanità dolente che lo abita
instaurare un dialogo. Non si può rimuoverli da sé, bisogna farsene
carico, studiare come andare avanti per superare le attuali
difficoltà». E più avanti. «Pare oggi che il carcere sia luogo di
sofferenza e di violenza più che di recupero, e che sempre meno si
faccia ricorso a forme di pena alternative alla detenzione».
Parole ancora più
attuali oggi; ma, sappiamo che la legislatura deluse quelle attese.
Lei, nel frattempo nominata senatrice a vita, scese allora
nell’impegno diretto, visitando alcuni istituti penitenziari,
soprattutto quelli femminili, e favorendo l’avvio di un
Osservatorio delle condizioni di detenzione all’interno di
Antigone.
Due ricordi in proposito
danno il senso dell’infaticabilità di un impegno di una persona
ormai novantenne e oltre. Il primo, la sua iniziale visita a Rebibbia
femminile, quando venne bloccata - lei che era ben riconoscibile - da
un’ottusità burocratica che non voleva permetterle l’ingresso
perché priva della carta d’identità. Lei ringraziò, disse che
era giusto applicare le regole, che sarebbe tornata, ma non per una
breve visita bensì per trascorrere parte del suo tempo in quel luogo
così difficilmente accessibile: la direzione corse ai ripari e le
concesse di entrare. Il secondo, il suo peregrinare per presentare
l'Osservatorio di Antigone in varie sedi culturali, in modo da
rafforzarlo affinché non potesse essere rimosso in futuro, passata
l'iniziale positiva accoglienza. E oggi, l'Osser-vatorio di Antigone,
grazie anche alla collaborazione che negli anni si è costruita con
l'Amministrazione penitenziaria, è una realtà viva e operante.
La fiducia nello
Stato
Ilsuo rapporto con questi
temi - come con quello che l'ha vista sempre impegnata per le donne
africane e la loro possibilità di accesso agli studi, attraverso le
innumerevoli borse di studio date dalla Fondazione che porta il suo
nome - ha sempre avuto una connotazione personale umanitaria, ma non
si è mai limitato a questa perché sempre fondato su un grande
impegno civico e non su un approccio meramente assistenziale.
Profondamente laica, di cultura sociale e politica definibile come
liberale, è sempre stata contraria alle forme del liberismo che si
andavano espandendo anche in Italia, riconoscendo alla centralità
dello stato, la funzione di regolazione e di superamento di localismi
ediun individualismo basato sul possesso. Soprattutto riteneva che i
temi sociali necessitassero di maggiore analisi continua e di
migliore conoscenza dei processi della loro trasformazione. Per
questo mi convocava spesso per essere informata; mi chiedeva come le
questioni relative alla privazione della libertà mutassero e con
quale segno, non solo in Italia, ma in Europa e altrove.
Dopo il mio incarico nel
Comitato europeo per la prevenzione della tortura, queste informative
divennero per lei anche più pressanti: voleva che le narrassi gli
esiti delle ispezioni in parti d'Europa meno sotto i riflettori, nei
luoghi dove recenti erano stati i conflitti e nei paesi che soltanto
da poco tempo si erano affacciati alla democrazia. Sul divano del suo
salotto si snocciolavano questioni relative al post-conflitto nei
Balcani e nella regione del Caucaso, dati i miei frequenti viaggi
d'ispezione nel drammatico contesto della Cecenia.
Era questa sua curiosità
intellettuale e questo suo continuo aggiornarsi che le permettevano
di avere molta più competenza di altri negli interventi nella
Commissione giustizia del Senato, a cui venne assegnata, e di
considerare con indignazione, ma anche con levità gli attacchi circa
la necessità per lei di «stampelle fisiche e giuridiche» che la
volgarità di qualche politicante di destra le indirizzò. Al
contrario disse che tali attacchi erano stati un'ottima occasione per
vedere quanto ricco fosse il panorama civile attorno, anche se spesso
non visibile, data l'ondata d'indignazione che aveva accompagnato
quelle parole e che le si era manifestata con un numero
inimmaginabile di messaggi.
I limiti del
presente
I processi di cambiamento
del resto -ripeteva - sono lenti e tuttavia spesso avvengono a balzi:
spetta a noi fare in modo di provocare e di cogliere i balzi in
avanti nella società; non lasciarli andare senza riconoscerli. Era
una sorta di darwinismo sociale che guidava il suo occhio in avanti,
nonostante i limiti del presente che per lei erano dati da indicatori
quasi matematici: restava sconcertata nel constatare, per esempio,
che all'Istituto di fisica della prima università di Roma ci fosse
soltanto una donna docente ordinario. L'ammirazione per lei, Valeria
Ferrari, in pranzi comuni di discussione, informazione e amicizia, si
tramutava nella constatazione di quanto ancora c'era da fare per
promuovere il riconoscimento del valore del lavoro delle donne e per
costruire una società di uguali. La conclusione non era mai
depressiva, ma sempre d'individuazione di cosa c'era da fare, in
parte per noi, in larga parte per le generazioni future su cui lei ha
visto fino alla fine il bello e la speranza di un processo che non
può che evolvere.
Si tornava così a quel
senso di positiva umiltà di una donna che pure all'esterno veniva
vista come figura carismatica. Si tornava a mangiare gli gnocchetti
di semolino che immancabilmente erano sul tavolo.
“il manifesto”, 2
gennaio 2013
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