Catena umana contro il muro di Trump |
«Aliens»! Ancora un
libro sugli alieni? Sì, ma la fantascienza stavolta non c’entra. È
il termine burocratico utilizzato, negli Stati Uniti, per descrivere
chiunque venga da altri Paesi: «nonresident aliens», «resident
aliens», «removable aliens». Alieni, stranieri non residenti;
residenti; stranieri che possono essere rimossi. Per raccontare
un’esperienza come interprete volontaria presso il Tribunale
Federale dell’Immigrazione di New York, Valeria Luiselli, nata in
Messico, si ferma a ragionare sulle parole. Le guarda controluce, le
studia. Scrittrice originalissima, sperimentale (Volti nella
folla, Storia dei miei denti), per Dimmi come va a
finire sceglie una lingua piana e trasparente. Così che risalti
con più forza quella zona del lessico usato un tempo con leggerezza
e trasformato «bruscamente in veleno», concetti sgretolati con
facilità pericolosa. Segni di un linguaggio malato che soffia sul
fuoco delle paure: «In tono più o meno apocalittico, alcuni
quotidiani e pagine web annunciano l’arrivo dei piccoli clandestini
come una piaga biblica. Attenzione alle locuste! Copriranno la faccia
della terra rendendola invisibile, quei minacciosi ragazzini e
ragazzine dalla pelle color caffè, i capelli di ossidiana e gli
occhi obliqui. Cadranno dal cielo sulle nostre auto, sul verde dei
nostri prati, sulle nostre teste».
Luiselli descrive
l’ingresso degli alieni bambini – i minori messicani non
accompagnati che provano a entrare negli Stati Uniti – in una terra
che li scruta con sospetto. Extraterrestri, appunto: a cominciare
dalla lingua. Interrogati con insistenza dalle autorità – quando
sei entrato? per quale motivo sei venuto? sei in contatto con
qualcuno nel tuo paese natale? –, il più delle volte i bambini non
hanno risposte. Luiselli traduce, deve tradurre, ma vorrebbe tapparsi
le orecchie. Pensa ai propri figli, li immagina in quella situazione.
E in tutto ciò che la precede: «Se si dovessero ritrovare soli, ad
attraversare frontiere e paesi, i miei figli riuscirebbero a
sopravvivere?». E come hanno fatto a sopravvivere questi ragazzini
messicani – arrivati a bordo di treni merci, sfidando rischi
enormi, contrabbandieri, ladri, polizia? Sopportano tutto, pur di
arrivare dall’altra parte. Pur di arrivarci vivi, e magari mettersi
a cercare i genitori trasferiti anni prima negli Stati Uniti.
Scoprendo che la vita da clandestini si rivela spesso peggiore di
quella vissuta nel luogo da cui fuggono.
Fra le tante storie,
tutte documentate, c’è quella di un ragazzino che – dopo ore di
cammino nelle pianure aride del New Mexico – non aveva avvistato
nessuno della polizia di frontiera. Al secondo giorno di cammino
sotto il sole cocente, vede un veicolo, si sbraccia per farsi notare.
Scendono due poliziotti pronti ad arrestarlo. «Mia mamma diceva
sempre che sono nato sotto una buona stella» commenta lui,
raccontando la propria avventura alla scrittrice. Lei ce ne mostra il
seguito: il trasferimento in un centro di detenzione detto «hielera»,
cella frigorifera, anche per le raffiche di aria gelata. Poi,
l’inizio di una battaglia legale.
La necessità di questo
racconto asciutto, scritto con «un misto di rabbia e lucidità»,
vibra in ogni pagina. Come in filigrana, si sviluppa una meditazione
sul rapporto fra le parole e ciò che resta impronunciabile –
almeno per le vittime. Chi testimonia per i testimoni? Chi ha il
dovere di testimoniare per i testimoni? Tanto più inaggirabile
l’interrogativo risuona quando Luiselli deve rispondere alle
domande della figlia. La bambina ha orecchiato una delle storie di
quei coetanei sfortunati, perciò chiede: come va a finire? Non lo
so, risponde la madre. Non lo so. La stessa risposta di molti
migranti. «Per quale motivo sei venuto negli Stati Uniti? Forse
nessuno è davvero in grado di rispondere». Luiselli, messicana
trapiantata a New York, rivolge la domanda anche a sé stessa. Prova
a rispondere: «Perché volevo arrivare». E così forza il silenzio.
Almeno in parte, lo riscatta. «Perché tutti quanti saremo chiamati
a render conto di ciò che succede sotto i nostri occhi senza che
nemmeno osiamo guardare».
Tuttolibri La Stampa, 28
ottobre 2017
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