L’articolo che segue è il
necrologio per lo scrittore e commediografo Arthur Miller, morto a Roxbury, nel
Connecticut, nel febbraio 2005. Aveva 89 anni. (S.L.L.)
Arthur Miller, che aveva più o
meno la mia età, appartiene alle glorie americane degli anni Quaranta. Io l’ho
conosciuto nel pieno della sua gloria a New York a uno dei ricevimenti di
Stella Adler, lì al Village. Era il 1956, e naturalmente Arthur Miller era lì
col chiasso del suo successo per la Morte
di un commesso viaggiatore del 1949, per Il crogiolo del 1953 e per Uno
sguardo dal ponte del 1955.
Mi raccontava della sua
drammatica avventura nella caccia alle streghe di Joseph McCarthy, già molto
avanti, col passaporto già confiscato e il rischio di una incarcerazione che
probabilmente sarebbe stata lunga quasi quanto quella di Dashiell Hammett; e
non aveva l'aria di essere un granché contento. In vista di un futuro che
sembrava poco promettente, era un po’ scartato dagli altri ospiti; e forse
perché gli parevo fuori dalla mischia, mi aveva raccontato, con la freddezza
con cui raccontava qualunque cosa, che stava per sposare Marilyn Monroe e
questo significava la restituzione del passaporto per poterla accompagnare in
Inghilterra a fare il film con Lawrence Olivier. I giornali ne parlavano già,
figurarsi, e non mancavano di confrontare questo matrimonio con quello di Luisa
Reiner, con un commediografo americano famoso.
Un po’ più tardi era arrivata al
ricevimento anche Marilyn, una persona meravigliosa, dolce, tenera, quanto
Miller era freddo e severo. Poi era venuto il film a Londra, la delusione di
Marilyn per il ruolo che, nonostante le promesse, lui le aveva riservato ne Gli spostati , la moglie di Lee
Strasberg stabile con lei nel suo torpedone per farle coraggio; e naturalmente
il divorzio dopo quattro anni, la generosità commovente di Marilyn che gli
lasciò una villa del Settecento nel Connecticut ma, come la bambina buona che
era, volle prendere per sé solo la sua televisione, praticamente con gli occhi
di tutto il mondo che accompagnavano lei con le sue lacrime e ormai coi suoi
sedativi.
Ma proprio di quei sedativi ha
parlato Miller subito, nel 1964, in Dopo
la caduta, opera per la quale speriamo tutti che abbia chiesto perdono
prima di morire; una speranza confortata dalla sua ultima commedia in vita, Finishing the Picture, rappresentata lo
scorso anno al teatro Goodman di Chicago. Dopo quarant’anni Arthur Miller,
forse già malato, aveva scritto questa commedia elegiaca, di ricordi di un uomo
che ha conosciuto tutte le fragilità umane e, ormai, neanche tanto rassegnato
quanto disposto ad accettarle come parte della condizione umana. Nella commedia
(basata sull’ultimo film di Marilyn, Gli
spostati del 1961, diretto da John Houston e scritto da Miller), compare
una Marilyn in lotta con la depressione e vittima di quelle che Gregory Corso
chiamava «le sostanze chimiche». La commedia era andata in scena il 5 ottobre a
Chicago e le anteprime erano cominciate il 21 settembre 2004.
Il suo successo negli anni
Settanta e Ottanta era calato e Miller, quando chiacchierava con noi a tavola,
già sposato con la fotografa Inge Morath (nello stesso anno della morte di
Marilyn), evitava con ostentazione di parlare di questi ricordi. Invece parlava
per esempio dei commediografi famosi nella sua giovinezza, ricordava che Eugene
O’Neill, quando Miller aveva cominciato negli anni Quaranta, era ignorato dalla
critica e il suo linguaggio era considerato datato, raccontava i lavori che
aveva fatto con Elia Kazan che stimava moltissimo, parlava molto delle
fotografie di Inge Morath e invece non diceva neanche una parola di Marilyn
Monroe, non parlava della figlia Rebecca che aveva pubblicato di recente la sua
autobiografia mascherata da romanzo.
Che tristezza, quasi dolore, ascoltarlo.
Perché era difficile dimenticare che, quando gli avevo telefonato qui a Milano
per cenare insieme, mi aveva risposto che accettava solo se gli promettevo di
non fargli domande su Marilyn Monroe. È un problema che tocca uomini che
sposano donne più famose di loro, ma di solito almeno una parola, non dico di
gratitudine, per carità, ma almeno di orgoglio per aver avuto la loro
dedizione, sembra proprio che la debbano avere.
Quando è uscita questa ultima
commedia, abbiamo tutti sperato che questo avvenisse. Forse pensavamo alla
dolcezza di lei e alla incredibile, anche se forse non sincera, freddezza di
lui. La freddezza non era ancora esplosa quando aveva scritto, forse da
moralista più che da politico, la commedia causa di qualche suo guaio, Il crogiolo, ma l’egemonia politica di
allora rendeva verosimile la sua fiducia in un futuro forse troppo utopistico.
Il suo futuro con Marilyn non sembrava utopistico. Ero amica dell’agente
letterario di Miller, la sorella della nostra Voce dell’America, e mi raccontava
che in questa famosa villa veniva sempre ad aprire la porta Marilyn come una
brava cameriera d’altri tempi; dei tempi nuovi aveva l’abitudine di andare ad
aprire la porta nuda. Mi pare che facesse bene: era troppo bella per non dare
gioia a tutto il mondo, che l’adorava, e non soltanto a un uomo ricordato
soprattutto per il suo moralismo e la sua freddezza.
Corriere della sera, 12 febbraio
2005
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