A Emilio Salgari piaceva un sacco
venire definito «uno che torna dal mare». E faceva di tutto per sembrarlo.
«Audacia» e «ferocia» erano termini molto ricorrenti nei suoi racconti di
nomade dell’immaginazione. Millantava d’essere capitano di gran cabotaggio e
viaggiatore avvezzo a ogni tempesta, anche se il suo unico viaggio per mare si
risolse sulla rotta Venezia-Brindisi, nei panni di mozzo su una carretta
chiamata Italia I. Ma in palestra aveva
affinato l’arte della scherma e se qualcuno osava mettere in dubbio la
veridicità delle avventure cui alludeva veniva sfidato a duello e sconfitto,
così da venire dissuaso a insistere e dissuadere altri eventuali dileggiatori.
Più un consapevole visionario che
un volgare bugiardo, però. «Staccarmi dalle mie fantasie vorrebbe dire
togliermi la ragione logica dell’esistenza», confessò. E quando lo stacco
avvenne provvide lui stesso a togliersi la vita in un boschetto vicino a
Torino, il 25 aprile del 1911.
Sognava avventure alla Verne e
alla Dumas, il veronese Salgari. Si limitò a inventarle in un’epoca di Grandi
Esplorazioni e di fantasticherie esotiche. Studiò cronache, riviste illustrate
di viaggi e mappe geografiche in biblioteca contribuendo ad ampliare un immaginario
non ancora globalizzato, aprendo al lettore scenari che
fino ad allora erano limitati al cortile di casa, in Italia più che altrove.
“alias – il manifesto”, 23 aprile
2011
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