«Nel mio ricordo è Braque che ha
realizzato il primo dipinto cubista. Aveva portato dal Sud un paesaggio
mediterraneo che rappresentava un villaggio sul bordo del mare, visto
dall’alto». Così scrive Matisse nella Testimonianza
contro Gertrud Stein, redatta nel 1935 da un gruppo di artisti e critici
per smentire gli ingiusti giudizi contro il pittore normanno che si leggono nell’Autobiografia di Alice Toklas.
Matisse (che peraltro è il primo a parlare di pittura fatta di «piccoli cubi»)
fa riferimento a uno dei paesaggi de L’Estaque
esposti nel novembre 1908 nella galleria di Kahnweiler, in cui le distorsioni
spaziali cézanniane vengono portate all’estremo fino alla soglia della rottura
della logica prospettica tradizionale.
Anche se la precedente esperienza
fauve è significativa, è a partire da
questa mostra che inizia la fase cruciale della sperimentazione artistica di
Georges Braque, quella dell’invenzione e dello sviluppo analitico e sintetico
della scomposizione cubista, in stretta collaborazione con Picasso, dal 1909 al
1914. E in questa invenzione il contributo di Braque è stato per certi aspetti
più determinante, in particolare per quello che riguarda l’inserimento di
caratteri tipografici, e l’invenzione nel settembre 1912 dei papiers collés.
Dopo aver creato insieme i
presupposti per una radicale rivoluzione del linguaggio plastico pittorico, le
strade dei due artisti si dividono. Mentre Picasso continuerà in maniera
travolgente a dominare la scena con un’evoluzione continua sempre provocatoria
della sua ricerca, Braque dal dopoguerra in poi, porterà avanti il suo lavoro
con mirabile coerenza, con evoluzioni e variazioni mai eclatanti, riassorbendo
la straordinaria tensione innovativa dell’eroica stagione cubista all’interno
di una più tranquillizzante e meditata dimensione pittorica.
Gli aspetti fondamentali del suo
linguaggio (la frammentazione dei piani spaziali, la composizione intesa come
una partitura visiva, la separazione fra colore e forme, l’elaborata
fisicizzazione delle materie pittoriche) rimangono costanti. Nel 1915 Braque
viene gravemente ferito in guerra e ricomincia a dipingere solo nel 1917.
Questo trauma sembra cambiare definitivamente il suo carattere, tanto che molti
(tra cui per esempio Breton) pensano che la sua energia inventiva si sia
inesorabilmente affievolita. Ma è un giudizio sbagliato, basato anche su un
improponibile confronto con l’effervescenza vitalistica di Picasso. Per capire
veramente l’arte di Braque bisogna guardare tutto l’insieme della sua
produzione, bisogna capire quello che è il peculiare registro della sua
sensibilità, del suo raffinatissimo senso della misura («la regola che corregge
l’emozione»), della sua sottile ironia metalinguistica, e della sua profonda
integrità allo stesso tempo etica ed estetica. E ci si può rendere conto di
questo, nel migliore dei modi, visitando la magnifica esposizione che si aperta
al Grand Palais, la più importante e completa retrospettiva sull’artista dopo
quella del 1973 all’Orangerie.
La mostra, che ha una classica
impostazione cronologica, è divisa in una serie di sezioni che documentano con
opere della più alta qualità, le principali fasi della sua lunga avventura
creativa: la coloratissima esperienza fauve;
tutti i passaggi essenziali delle sperimentazioni cubiste (dal protocubismo
cézanniano alla frammentazione analitica, dai papiers collés alle solide composizioni sintetiche); le nature
morte e le figure degli Anni 20 (tra cui le classicheggianti Canéphores) ; le nature morte e gli
interni con figure degli Anni 30; l’affascinante serie di figurazioni lineari
ispirate alla Teogonia di Esiodo
(1930-32) ; i sorprendenti e sghembi Billards
del 1944-49; le complesse e stratificate composizioni dei grandi Ateliers (1949-56) che sono un mirabile
sintesi della sua sapienza pittorica; e infine, degli ultimi anni, i
semiastratti Oiseaux, con forti
valenze poetiche metafisiche, e i melanconici paesaggi quasi figurativi, di una
accentuata orizzontalità senza futuro.
L’impostazione cronologica impone
un senso filologico e documentario alla visita, certamente utile ma troppo
istituzionale (Braque è un monumento storico per i francesi), ma impedisce, per
certi versi, una visione meno eterodiretta. E quindi è consigliabile alla fine
del percorso ritornare indietro e guardare in modo più libero le singole opere
secondo criteri più anarchici, e forse così si può arrivare a scoprire il vero
segreto della visione estetica di un grande artista come Braque. E in questo
senso è bene ricordare quello che ha detto Giacometti per rendere omaggio a
Braque, in occasione della sua morte: «Di tutta la sua opera, io guardo con più
interesse, curiosità e emozione i piccoli paesaggi, le nature morte degli
ultimi anni. Io guardo questa pittura quasi timida, imponderabile, questa
pittura nuda, di una ben diversa audacia, di una ben più grande audacia di
quella degli anni lontani; pittura che secondo me si situa al vertice dell’arte
d’oggi con tutti i suoi conflitti». Forse, questa interpretazione
esistenzialista di un artista che ha sempre (apparentemente) evitato ogni
valenza personale esplicita nel proprio lavoro, è la più vera.
“La Stampa” 30 settembre 2013
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