29.12.13

Eliot nella terra desolata. Quasi una stroncatura (Alfredo Giuliani)

Pubblicato in prossimità del centenario del poeta questo articolo è quasi una stroncatura postuma. Ma, per quel che m’è dato di conoscere e giudicare, pur non avendo fatto parte per ragioni anagrafiche della schiera degli appassionati per equivoco del poeta americano-inglese, le riserve e le insolenze di Giuliani le condivido tutte e mi pare che lo strato di polvere che ne copriva l’opera - a 25 anni di distanza - si sia fatto una coltre. (S.L.L.)
Thomas Stearns Eliot
Perché T.S. Eliot (del quale il 26 settembre ricorrerà il centenario della nascita) è stato tanto influente, tanto celebre e autorevole? Si potrebbe volgarizzare la sua formula con una mossa da music hall: il mondo è rovinato, il mondo va in malora, e come bella la desolazione; facciamoci su uno squisito spettacolo. A ben vedere è proprio con tale formula che Eliot ha occupato abbastanza presto, conservandolo a lungo, un posto centrale nella poesia del Novecento.
Il poemetto The Waste Land (La terra desolata) apparve in volume nel 1922, quando l'autore aveva trentaquattro anni, e divenne rapidamente un'opera canonica del modernismo più sofisticato. Con fredda passione e sarcasmo; affastellando snobismi, angosce, visioni; manipolando nell'accattivante maestria del verso una serie disparata di fonti, molte delle quali, per il taglio e il montaggio, destinate a suscitare nel lettore abbaglio e sorpresa; puntellando le incertezze e vacuità del presente con oscuri e fascinosi richiami alla Tradizione e al Mito; facendo insomma balenare tra le squallide rovine «nuove» gli splendidi frammenti delle rovine «antiche», Eliot era riuscito con qualche fortuna (vedi i consigli dell’amico Ezra Pound sulla potatura del testo) a dare un'immagine brillantemente funeraria, pluriculturale, tortuosamente allegorica della Crisi.
Nei 433 versi di The Waste Land c'è, in modi solenni, quell'intruglio adultero di tutto che aveva fatto la burlesca felicità del povero poeta «contumace» Tristan Corbière. L'intero poemetto è accompagnato da un coro invisibile, una litania scandita da un metafisico tamburo che dice: Morte-Rinascita-Morte, e così via dal principio alla fine. Eliot eccelle nei recitativi e negli intermezzi. E che cosa c’è tra un recitativo e l'altro? Tra un intermezzo e 1'altro? Non c'è niente, ecco la grande funzione del Vuoto. Ci sono voraginosi, enigmatici buchi che il lettore affamato di poesia immaginaria percepisce con sofferta compiacenza intellettuale. Quei buchi rendono ancora più enigmatica e coinvolgente la partitura dei recitativi e degli intermezzi.

Faccia verde
A guardare certe fotografie dalla mezza età in poi, Eliot mi sembra ancora simile a un attore; a me piaceva in quelle pose perché mi ricordava un po' Lionel Barrymore, uno dei miei preferiti. Del resto non mi sbagliavo. Uno dei suoi recenti biografi, Peter Ackroyd, riferisce che lo scrittore e critico Pritchett lo descriveva come «una compagnia di attori dentro un unico costume», e che ai tempi di The Waste Land si incipriava la faccia di verde, il che, spiegò qualcuno della sua cerchia, gli conferiva «un'aria interessante e cadaverica». Siccome allora era impiegato di banca, quel trucco con cui si presentava agli amici e colleghi letterati doveva servire, probabilmente, a staccare il poeta dal funzionario. C'è qualcosa di mirabilmente truccato in tutta l'opera di Eliot, ecco come stanno le cose.
Da noi il suo periodo magico è cominciato subito dopo la guerra ed è durato più di una decina d'anni, anche se già nel 1941 s'erano potute leggere sue poesie in volume (una scelta pubblicata da Guanda a cura di Luigi Berti, altre versioni e altri editori l'avrebbero poi sostituita). Nel '46 comparvero i saggi del Bosco sacro, che include il famoso «Tradizione e talento individuale». Perché famoso? Perché contiene alcune delle impennate più risentite di Eliot: per esempio, che il poeta non ha una «personalità» da esprimere; che ciò che conta non è l’intensità che uno prova, ma l'intensità del processo artistico, il quale consiste in un continuo sacrificio di sé, «una continua estinzione della personalità».
Parole scritte prima del 1920, che restano a mio parere un punto capitale, non tanto però da costituire un dogma, e che ebbero una fortissima influenza sulla nostra poesia intorno agli anni Cinquanta. Credo siano pochi coloro che hanno cominciato a scrivere versi in quel periodo e non siano stati toccati (proprio touched) dalla lama di Eliot, o da quella che sembrava la sua tagliente maniera critica e poetica. In un momento in cui la nostra lingua poetica del Novecento appariva esaurita, Eliot portava una ventata di internazionalismo, un campionario di stili e rivisitazioni.
La nostra giovinezza è stata fatta da innumerevoli cose, ma tra quelle includerei a occhi chiusi (pur se oggi non mi emozionano più) Il canto d'amore di J. Alfred Prufrock, The Waste Land e alcuni passi dei Quartetti. In verità, Prufrock (la cui composizione risale al 1910-1914) non è poi tanto lontano dal gozzaniano Tota Merùmeni; ma, vuoi mettere, è molto più «moderno», ha una coscienza di sé assai più raffinata, ha probabilmente letto (tra l'altro) Lautréamont (da dove verrebbero se no i «ruvidi artigli che corrono sul fondo di mari silenziosi»?), ed è capace di semplicità folgoranti, dove davvero l'ironia suona impersonale: Oserò /disturbare l'universo? Oppure: Nella stanza le donne vanno e vengono / parlando di Michelangelo. Quelle ridicole signore non hanno mai cessato di andare su e giù, mentre noi si stava affondati nella poltrona in un angolo.
Sempre in quel periodo poteva capitarti di leggere frammenti del quartetto East Coker, e un passo ti forzava a riflettere: E così eccomi qui, a mezzo del cammino, con ventanni alle spalle/—vent'anni gran parte sprecati, gli anni dell'entre deux guerres — /a cercar d’imparare l'uso delle parole, e ogni tentativo/ è un nuovo scatto di partenza, e un modo diverso di fallire... Che cos'era? Testimonianza, sintomo di depressione, avvertimento? Non era poesia memorabile, ma comunicava l'angoscia del mestiere (poteva venire in mente la «servitù di parole» ungarettiana in una cornice più
tecnica). Anche Ezra Pound, mentore oltre che amico di Eliot, aveva la passione per il mestiere del poeta, per la ricerca e l'affinamento degli strumenti e dei materiali; ma ciò che Pound comunicava era tutt'altro che deprimente, era una forma di occhiuta energia.
Faccio notare che in quell'epoca prestrutturalista, presemiologica, ottusamente «realistica», del mestiere, da noi non parlava pressoché nessuno. A sentire i critici e gli stessi poeti, sembrava che la poesia discendesse direttamente dalla Grazia (e non c’e niente di più falso). Nei testi di Eliot la tecnica, la retorica della poesia erano snobisticamente esibite. I momenti lirici (non prevalenti) erano come cantati in falsetto o con rassegnata intenzione di passare oltre. Aspetti che si meritavano più che un applauso di stima.
Alcuni di noi si sono affaccendati con The Waste Land durante e dopo la guerra; ma, dopo, intorno a quel titolo s'era aggiunto l'alone della Bomba, e scusate se è poco. Questa è una delle ragioni per le quali tanto virtuosismo sulla Desolazione suonava per noi come un anticipato, elegante esorcismo.
Forse eravamo orgogliosi, dati i tempi grami, che il poeta americano, ridiventato un po' surrettiziamente inglese (con la scusa che la sua famiglia era partita dal Somerset intorno al 1670), rivelasse una spiccata ammirazione per Dante, che aveva cominciato a conoscere da studente a Harvard e aveva approfondito tramite Pound.
           
Atroce primavera
Ci incuriosiva e sconcertava trovare nella scompagine dei suoi temi, insieme con la parodia e la satira, costanti accenti religiosi. Diavolo, nell'intruglio di The Waste Land c'è un compendio di religioni e credenze rinfuse: Riti di Vegetazione, Bibbia, Eterno Ritorno, Budda e Cristo, Misteri frigi e Upanishad. E Tiresia, forse la vera immagine unificante del poemetto, non è anche lui una presenza religiosa? Ce n’era abbastanza da restare intontiti. Si aggiunga l’abilità o  la preoccupazione di Eliot nell'imitare le qualità visive di Dante e nel dare concretezza linguistica, uno spessore sensibile, ai pensieri che lo attraevano.
I fuochi della modernità accesi e dissipati con i più bruschi movimenti nella Terra desolata, i bagliori del passato che il testo faceva apparire enigmaticamente, lasciavano in ombra la natura alessandrina, affatturata, dell'intera operazione. Commentando un passo della terza parte del poemetto, Mario Praz notava che esso era «un centone di reminiscenze». Ma dove non è reminiscenza, riscrittura, citazione e contraffazione in The Waste Land? Perfino il celeberrimo inizio — Aprile è il mese più crudele... — ha un palinsesto in Thomas Mann. Nel principio di Tonio Kroeger (1903), il protagonista cita la frase di un suo amico: «La primavera è la più atroce delle stagioni». Perché, appunto, la trivialità della natura, che si risveglia e si mette spudorata a generare, vince l'indifferenza e la cauta ironia dello Spirito. Sono quasi le stesse parole, è quasi il medesimo tema.
I Quartetti sono delle gran belle meditazioni, Eliot li scrisse tra il 1936 e il 1942, quando ormai da tempo era radicato nel cattolicesimo anglicano; poesia teologica, predicatoria, grigia, che tranne qualche pezzetto trovo avvilente e noiosa, come noioso dal principio alla fine è il teatro, mentre dai saggi critici (specialmente Il bosco sacro, L'uso della poesia e l'uso della critica) c'è sempre parecchio da imparare. Alla fine, per quanto strana possa sembrare la cosa, su questo poeta che ha avuto tanta importanza in un momento della nostra vita, s'è ispessito uno strato di polvere. E in una nuvola di polvere, oh malinconia, mi sento risucchiato. Con rispetto, con un saluto cortese ai vecchi tempi, mi allontano verso un qualche allegro e ventilato inquinamento, nella terra sempre più desolata.


“la Repubblica”, 18 settembre 1988

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