Pubblicato in prossimità del
centenario del poeta questo articolo è quasi una stroncatura postuma. Ma, per
quel che m’è dato di conoscere e giudicare, pur non avendo fatto parte per
ragioni anagrafiche della schiera degli appassionati per equivoco del poeta
americano-inglese, le riserve e le insolenze di Giuliani le condivido tutte e
mi pare che lo strato di polvere che ne copriva l’opera - a 25 anni di distanza
- si sia fatto una coltre. (S.L.L.)
Perché T.S. Eliot (del quale il
26 settembre ricorrerà il centenario della nascita) è stato tanto influente,
tanto celebre e autorevole? Si potrebbe volgarizzare la sua formula con una
mossa da music hall: il mondo è rovinato, il mondo va in malora, e come bella
la desolazione; facciamoci su uno squisito spettacolo. A ben vedere è proprio
con tale formula che Eliot ha occupato abbastanza presto, conservandolo a
lungo, un posto centrale nella poesia del Novecento.
Il poemetto The Waste Land (La terra desolata) apparve in volume nel 1922,
quando l'autore aveva trentaquattro anni, e divenne rapidamente un'opera
canonica del modernismo più sofisticato. Con fredda passione e sarcasmo; affastellando
snobismi, angosce, visioni; manipolando nell'accattivante maestria del verso
una serie disparata di fonti, molte delle quali, per il taglio e il montaggio,
destinate a suscitare nel lettore abbaglio e sorpresa; puntellando le
incertezze e vacuità del presente con oscuri e fascinosi richiami alla Tradizione
e al Mito; facendo insomma balenare tra le squallide rovine «nuove» gli
splendidi frammenti delle rovine «antiche», Eliot era riuscito con qualche
fortuna (vedi i consigli dell’amico Ezra Pound sulla potatura del testo) a dare
un'immagine brillantemente funeraria, pluriculturale, tortuosamente allegorica
della Crisi.
Nei 433 versi di The Waste Land c'è, in modi solenni,
quell'intruglio adultero di tutto che
aveva fatto la burlesca felicità del povero poeta «contumace» Tristan Corbière.
L'intero poemetto è accompagnato da un coro invisibile, una litania scandita da
un metafisico tamburo che dice: Morte-Rinascita-Morte, e così via dal principio
alla fine. Eliot eccelle nei recitativi e negli intermezzi. E che cosa c’è tra
un recitativo e l'altro? Tra un intermezzo e 1'altro? Non c'è niente, ecco la
grande funzione del Vuoto. Ci sono voraginosi, enigmatici buchi che il lettore
affamato di poesia immaginaria percepisce con sofferta compiacenza
intellettuale. Quei buchi rendono ancora più enigmatica e coinvolgente la
partitura dei recitativi e degli intermezzi.
Faccia verde
A guardare certe fotografie dalla
mezza età in poi, Eliot mi sembra ancora simile a un attore; a me piaceva in
quelle pose perché mi ricordava un po' Lionel Barrymore, uno dei miei
preferiti. Del resto non mi sbagliavo. Uno dei suoi recenti biografi, Peter
Ackroyd, riferisce che lo scrittore e critico Pritchett lo descriveva come «una
compagnia di attori dentro un unico costume», e che ai tempi di The Waste Land si incipriava la faccia
di verde, il che, spiegò qualcuno della sua cerchia, gli conferiva «un'aria
interessante e cadaverica». Siccome allora era impiegato di banca, quel trucco
con cui si presentava agli amici e colleghi letterati doveva servire,
probabilmente, a staccare il poeta dal funzionario. C'è qualcosa di
mirabilmente truccato in tutta l'opera di Eliot, ecco come stanno le cose.
Da noi il suo periodo magico è
cominciato subito dopo la guerra ed è durato più di una decina d'anni, anche se
già nel 1941 s'erano potute leggere sue poesie in volume (una scelta pubblicata
da Guanda a cura di Luigi Berti, altre versioni e altri editori l'avrebbero poi
sostituita). Nel '46 comparvero i saggi del Bosco
sacro, che include il famoso «Tradizione e talento individuale». Perché
famoso? Perché contiene alcune delle impennate più risentite di Eliot: per
esempio, che il poeta non ha una «personalità» da esprimere; che ciò che conta
non è l’intensità che uno prova, ma l'intensità del processo artistico, il
quale consiste in un continuo sacrificio di sé, «una continua estinzione della
personalità».
Parole scritte prima del 1920,
che restano a mio parere un punto capitale, non tanto però da costituire un
dogma, e che ebbero una fortissima influenza sulla nostra poesia intorno agli
anni Cinquanta. Credo siano pochi coloro che hanno cominciato a scrivere versi
in quel periodo e non siano stati toccati (proprio touched) dalla lama di Eliot, o da quella che sembrava la sua tagliente
maniera critica e poetica. In un momento in cui la nostra lingua poetica del
Novecento appariva esaurita, Eliot portava una ventata di internazionalismo, un
campionario di stili e rivisitazioni.
La nostra giovinezza è stata
fatta da innumerevoli cose, ma tra quelle includerei a occhi chiusi (pur se
oggi non mi emozionano più) Il canto
d'amore di J. Alfred Prufrock, The
Waste Land e alcuni passi dei Quartetti.
In verità, Prufrock (la cui
composizione risale al 1910-1914) non è poi tanto lontano dal gozzaniano Tota
Merùmeni; ma, vuoi mettere, è molto più «moderno», ha una coscienza di sé assai
più raffinata, ha probabilmente letto (tra l'altro) Lautréamont (da dove verrebbero
se no i «ruvidi artigli che corrono sul fondo di mari silenziosi»?), ed è
capace di semplicità folgoranti, dove davvero l'ironia suona impersonale: Oserò /disturbare l'universo? Oppure: Nella stanza le donne vanno e vengono / parlando
di Michelangelo. Quelle ridicole signore non hanno mai cessato di andare su
e giù, mentre noi si stava affondati nella poltrona in un angolo.
Sempre in quel periodo poteva
capitarti di leggere frammenti del quartetto East Coker, e un passo ti forzava a riflettere: E così eccomi qui, a mezzo del cammino, con
ventanni alle spalle/—vent'anni gran parte sprecati, gli anni dell'entre deux guerres
— /a cercar d’imparare l'uso delle parole, e ogni tentativo/ è un nuovo scatto
di partenza, e un modo diverso di fallire... Che cos'era? Testimonianza,
sintomo di depressione, avvertimento? Non era poesia memorabile, ma comunicava
l'angoscia del mestiere (poteva venire in mente la «servitù di parole»
ungarettiana in una cornice più
tecnica). Anche Ezra Pound, mentore
oltre che amico di Eliot, aveva la passione per il mestiere del poeta, per la
ricerca e l'affinamento degli strumenti e dei materiali; ma ciò che Pound
comunicava era tutt'altro che deprimente, era una forma di occhiuta energia.
Faccio notare che in quell'epoca
prestrutturalista, presemiologica, ottusamente «realistica», del mestiere, da
noi non parlava pressoché nessuno. A sentire i critici e gli stessi poeti,
sembrava che la poesia discendesse direttamente dalla Grazia (e non c’e niente
di più falso). Nei testi di Eliot la tecnica, la retorica della poesia erano
snobisticamente esibite. I momenti lirici (non prevalenti) erano come cantati
in falsetto o con rassegnata intenzione di passare oltre. Aspetti che si
meritavano più che un applauso di stima.
Alcuni di noi si sono affaccendati
con The Waste Land durante e dopo la guerra; ma, dopo, intorno a quel titolo
s'era aggiunto l'alone della Bomba, e scusate se è poco. Questa è una delle
ragioni per le quali tanto virtuosismo sulla Desolazione suonava per noi come un anticipato, elegante esorcismo.
Forse eravamo orgogliosi, dati i
tempi grami, che il poeta americano, ridiventato un po' surrettiziamente
inglese (con la scusa che la sua famiglia era partita dal Somerset intorno al
1670), rivelasse una spiccata ammirazione per Dante, che aveva cominciato a conoscere
da studente a Harvard e aveva approfondito tramite Pound.
Atroce primavera
Ci incuriosiva e sconcertava trovare
nella scompagine dei suoi temi, insieme con la parodia e la satira, costanti
accenti religiosi. Diavolo, nell'intruglio di The Waste Land c'è un compendio di religioni e credenze rinfuse:
Riti di Vegetazione, Bibbia, Eterno Ritorno, Budda e Cristo, Misteri frigi e
Upanishad. E Tiresia, forse la vera immagine unificante del poemetto, non è
anche lui una presenza religiosa? Ce n’era abbastanza da restare intontiti. Si
aggiunga l’abilità o la preoccupazione
di Eliot nell'imitare le qualità visive di Dante e nel dare concretezza linguistica,
uno spessore sensibile, ai pensieri che lo attraevano.
I fuochi della modernità accesi e
dissipati con i più bruschi movimenti nella Terra
desolata, i bagliori del passato che il testo faceva apparire
enigmaticamente, lasciavano in ombra la natura alessandrina, affatturata,
dell'intera operazione. Commentando un passo della terza parte del poemetto,
Mario Praz notava che esso era «un centone di reminiscenze». Ma dove non è
reminiscenza, riscrittura, citazione e contraffazione in The Waste Land? Perfino il celeberrimo inizio — Aprile è il mese più crudele... — ha un
palinsesto in Thomas Mann. Nel principio di Tonio Kroeger (1903), il protagonista
cita la frase di un suo amico: «La primavera è la più atroce delle stagioni».
Perché, appunto, la trivialità della natura, che si risveglia e si mette
spudorata a generare, vince l'indifferenza e la cauta ironia dello Spirito.
Sono quasi le stesse parole, è quasi il medesimo tema.
I Quartetti sono delle gran belle meditazioni, Eliot li scrisse tra
il 1936 e il 1942, quando ormai da tempo era radicato nel cattolicesimo
anglicano; poesia teologica, predicatoria, grigia, che tranne qualche pezzetto
trovo avvilente e noiosa, come noioso dal principio alla fine è il teatro,
mentre dai saggi critici (specialmente Il
bosco sacro, L'uso della poesia e l'uso della critica) c'è sempre parecchio
da imparare. Alla fine, per quanto strana possa sembrare la cosa, su questo
poeta che ha avuto tanta importanza in un momento della nostra vita, s'è
ispessito uno strato di polvere. E in una nuvola di polvere, oh malinconia, mi
sento risucchiato. Con rispetto, con un saluto cortese ai vecchi tempi, mi allontano
verso un qualche allegro e ventilato inquinamento, nella terra sempre più
desolata.
“la Repubblica”, 18 settembre
1988
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