Provate a prendere le immagini di
due personaggi, che hanno dominato la scena del XIX secolo: una è quella,
notissima, di Marx, che abbiamo visto riprodotta fino all'esagerazione (e all'esasperazione)
durante i tempi del cosiddetto stalinismo trionfante, l'altra, meno conosciuta
ma altrettanto espressiva, è quella dell'anarchico Bakunin, di cui Riccardo
Bacchelli ci ha lasciato uno straordinario racconto nelle pagine su Il diavolo a Pontelungo. Ebbene, se —
magari con l'aiuto del computer— cercate di sovrapporre e «confondere» i due ritratti,
ecco che vedrete emergere un terzo volto, pressoché sconosciuto: quello di
Jakob Moleschott.
Chi sia stato Moleschott, nato a
Hertogenbosch, una cittadina olandese, nel 1822 (quando Marx aveva già 4 anni e
Bakunin 8) e morto a Roma nel 1893, lo sanno in pochi. Ecco un motivo in più
per segnalare il meritorio saggio di Giorgio Cosmacini, che ha appena dato alla
stampe Il medico materialista,
dedicato apposta, come dice il sottotitolo, a illustrare «vita e pensiero di
Jakob Moleschott» (Laterza, 2005). Il quadro che ne esce, sullo sfondo di
vivacissimi scontri polemici, rappresenta un capitolo fondamentale, seppure
lasciato ancora troppo in ombra, dei tormentati rapporti fra sviluppo scientifico
e ipoteche ideologico-religiose: e, più in generale, fra intellettuali e impegno
politico.
Infatti, Moleschott era un medico
— per l'esattezza, un fisiologo — che aveva subito attaccato quella concezione
«spiritualistica» della scienza, allora dominante, che riteneva il mondo intero
«opera della Provvidenza», contrapponendo la tesi che conoscenze valide si
ottengono solo con il metodo sperimentale, ossia «con le armi della scienza,
con la bilancia, con la macchina pneumatica e col microscopio». Adesso sembrano
osservazioni tanto elementari, da apparire quasi ovvie; invece, quando nel 1852
Moleschott pubblica La circolazione della
vita (per Cosmacini «una sorta di vangelo del materialismo militante») e
sostiene che è indispensabile «integrare esperienza e
ragione», convinto che «il perno
su cui si aggira lo scibile moderno è lo studio della metamorfosi della
materia», la reazione si fa immediata, addirittura rabbiosa. Tant'è vero che
Moleschott —invece di essere contestato in sede critica — viene diffidato
dall'«insegnare in modo immorale e frivolo»; è escluso dall'università (allora
era docente a Heidelberg); passa a Zurigo, e solo dal 1862 (per intervento di Francesco
De Sanctis, allora ministro del governo Ricasoli) ottiene la cattedra di
fisiologia sperimentale all'ateneo di Torino e successivamente a Roma, dove
diventerà anche senatore. Ma fino all'ultimo, pur di difendere le sue
convinzioni di scienziato «materialista» — spiega bene Cosmacini — deve lottare
contro quella che Cattaneo aveva chiamato «ambiziosa e turbolenta teologia»,
ogni volta cercando di convincere che so¬lo con la concreta fiducia nella
ragione e l'ostinato rigore del metodo sperimentale, ci si poteva liberare da
tante vecchie e false credenze, così da trasformare, per esempio, «il medico
infermiere nel medico sapiente, il medico credulo nel medico investigatore, il
medico empirico nel medico razionale», insomma «il mago in uno scienziato».
«La nostra è ragionata credenza -
insisterà fino in ultimo, sicuro che laicizzare la scienza fosse un impegno
primario, di cui si sarebbero viste le conseguenze positive dovunque: anche nell'Italia,
allora dominata dall'arretratezza, non solo economica. Certo, come dirà Cesare
Lombroso, che pur lo ammirava, Moleschott talvolta può apparire un «ribelle
nella scienza, nell'arte, nella religione, nella politica». Ma se si considera
— come fa Cosmacini — anche l'opera di istruzione e diffusione di consigli
igienici e norme sanitarie svolta ai tempi drammatici del colera, è difficile,
è impossibile non sottoscrivere quello che lui considerava il suo impegno per
allargare gli spazi di libertà a favore di tutti specie dei più poveri e oppressi:
«Da medico e igienista, da filantropo e politico desidero libere l'aria e la luce,
l'acqua, il sale e il pane».
“Corriere della sera”, 12/2/2005
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