Riprendo qui una parte della
recensione al volume Iacopone e la poesia
religiosa del Duecento, BUR, 2001, curato da Paolo Canettieri.
Cimabue, "Flagellazione" (particolare), New York, Frick Collection |
Il centro del libro è il rigore
francescano di Iacopone, con la sua concretezza che s'innalza a un diverso
sentire, che manipola la lingua, ne spezza le linee, la rende infine astratta
per rituffarla nel luogo indistinto tra corpo e spirito. Fatto che spiega
l'indecisione dei suoi interpreti tra realismo e metafisica. Senonché la
grandezza di Iacopone sta proprio nel contatto tra l'uno e l'altro. Resta viva
la definizione di Contini che, tratteggiandone un ritratto espressivistico, lo
vide «preso nell'identità di urlo e silenzio». Trascinato da un'espressività
alla quale quasi soccombeva, denso, ruvido e sproporzionato, il testo
iacoponico, lumeggiando il buio, mostra che «sono appunto le linee spezzate e
frastagliate della sua ispirazione, le deviazioni e perfino le apparenti
contraddizioni a suscitar l'impressione di un paesaggio scheggiato con aperture
inattese, tra roccia e roccia, su orizzonti vastissimi (e vuoti) o su abissi
improvvisi» (Mancini).
Una divina ars amandi che misura i confini del dicibile: la poesia religiosa
del nostro primo secolo, anche quando non decisamente mistica (ma i due termini
tendono a sovrapporsi) è anche una lotta con le capacità espressive della
lingua e del linguaggio della poesia, infocato, intarsiato di citazioni
scritturali e infine, stremato, quasi rassegnato al proprio stesso limite.
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