Il «dis/piacere del sublime», l'assenza
dell'oggetto desiderato, Greta Garbo in questo era «disumana» e quindi divina. I
tratti del suo viso erano plasmati dalla luce che produce l'ipnosi
cinematografica: quando appariva sullo schermo il pubblico degli anni
Venti-Trenta dimenticava la storia, il trascorrere degli avvenimenti, e si
protendeva verso quel baluginare fantasmatico che si sottrae a ogni
definizione.
Era bella? Chissà, certo è che nessuna fotografia sa provocare la
sorpresa che inchioda lo spettatore quando appare come una creatura che non ha
analogie con la vita, ma nasce (anticipazione mediale?) direttamente dallo
schermo, forma di impulsi elettronici, che si scompone e ricompone magicamente
nello splendore radiante della luce.
La donna «ideale», la donna dei
sogni, in realtà non apparteneva affatto alla fantasia maschile, non era
incarnazione di alcun «autore» (né Pabst, né Stiller, né Sjostrom) né della
società, ma un «principio di bellezza che, una volta messo in movimento,
diviene autonomo» (Molly Haskell, From
revence to rape).
Una macchina celibe. I suoi gesti sono pervasi da un violento
autoerotismo, per cui quando accarezza gli oggetti con le mani bianche e
sottili accarezza se stessa o meglio le sue idee sull'amore, cosi che l'uomo accanto
a lei diventa invisibile.
Perfetto androgino (e non solo
nella Regina Cristina) aveva in pugno
il pubblico maschile che nel vederla sul grande schermo assaporava l'illusione
di possederla, così come ogni immagine verosimile, inserita in paesaggi
domestici.
Un'illusione romantica di veder
materializzato il più nobile concetto dell'amore. Non un corpo sessuato secondo
gli schemi mondani, non un «altro da sé», ma un essere che nella sua ambiguità
fisica comunicava il dolce dolore dell'Idea inesprimibile dell'amore (così come
scrive Barthes: «la singola¬rità della Garbo era di ordine concettuale.»).
Non a caso, Greta Garbo fu «scoperta» dai poeti surrealisti, quando
il 21 gennaio 1926 La via senza gioia
inaugurò lo Studio des Ursulines a Parigi. Il film fu proiettato in una sala
affollata dai rappresentanti dell'avanguardia letteraria.
Lo scrittore surrealista Philippe
Soupault ricorda: «Lassù apparve questa donna stupefacente, Greta Garbo. Ella
mi ha dato l'impressione di un fantasma, ma con il fascino di un fantasma...Non
aveva quel che più tardi è stato chiamato sex-appeal. Corrispondeva alle nostre
preoccupazioni femminili, se cosi posso dire. Noi, poeti surrealisti, cercavamo
questa donna fantasma. Era la donna che avrebbe potuto essere un'apparizione in
Les Chants de Maldoror, che avrebbe
potuto essere quello che Rimbaud desiderava. Qualcosa di molto commuovente mi
ha preso quando l'ho vista sullo schermo». Così la ragazza di Stoccolma
acquista un'esistenza mitica prima ancora di sbarcare a Hollywood.
E anche le donne americane
l'adoravano perché d'un tratto dopo l'Età del Jazz, del proibizionismo e della
vamp alla Theda Bara, o anche delle ninfette saltellanti tipo Colleen Moore
(dal caschetto che sarà poi quello di Louise Brooks) e delle «fidanzatine
d'America» come Mary Pickford e delle estenuate vergini alla Lillian Gish, il
cinema offriva, in barba al codice Hays, uno shock di sensualità sconvolgente.
Lei, infatti, era tutt'altro che
eterea. Il suo erotismo non veniva dall'esposizione di gambe nude con
giarrettiera, stile Marlene Dietrich (sua avversaria, che chiedeva alla vita qualcosa
di più difficile da ottenere dell'«amore eterno»: l'amore qui e subito), né da
un particolare del corpo (non sarà mai individuata come altre star per un
«eccesso»: la bocca di Rita Hayworth, il seno di Jane Russell, le gambe di
Betty Grable...) ma da una «passione consapevole».
Non è l'uomo che la perde, ma l'idea dell'amore immortale, che pur
trascinandola quasi sempre verso la catastrofe la rende superiore ad ogni altro.
Forse mai più, se non recentemente, nella donna-alieno dei film Usa, un'attrice
sarà immagine di un corpo guidato da un cervello a cui si aggiunge un cuore.
Lo scrittore e critico Henri Agel
lo dice con altre parole: «Ella comunica attraverso il fremito di una
sensibilità, di cui il segreto si è perduto, il mistero di un'anima presente in
un corpo».
Contrario esatto della femme
fatale, lei opera per se stessa e non devasta uomini. Anche quando l'innamorato
muore per qualche incidente di percorso (Grand
Hotel, La regina Cristina...) è
sempre lei a misurarsi con l'enormità delle sue scelte: «Una volta offerto il
dono inestimabile di se stessa, perde la sfida (per morte, rifiuto o forzata
separazione) e la profondità della ferita nel suo animo diviene ancora maggiore»
(Marjorie Rosen, Popcorn Venus).
Emissaria del Vecchio Mondo - insieme a gente come Murnau, Lang,
von Sternberg, von Stroheim, Lubitsch - Greta Garbo fonda Hollywood come
territorio dell'incantesimo.
L'odore della morte, che l'artista
europeo esorcizza con lo sprofondare nei suoi ideali femminili, si dirada e
scompare sulla costa del Pacifico quando lei si esclude dal ciclo della natura
e si sottrae al destino mortale. Per sempre giovane e bella, così l'hanno voluta,
come un'opera d'arte. E Greta Garbo ubbidisce quando nel 1941 si ritira non dal
cinema, ma dalla vita.
Così, dopo di lei, Hollywood
cercò sempre di riprodurre quel sentimento, non dissimile dall'«amore eterno»,
che ognuno provava vedendola: l'insoddisfazione di fronte al resto del mondo.
“il manifesto”, 17 aprile 1990
Nessun commento:
Posta un commento