Questo articolo sul tenente
Colombo fu scritto e pubblicato all’inizio degli anni 80, prima che in Italia la
serie passasse dalla Rai a Berlusconi e venisse ritrasmessa centinaia di volte
senza tuttavia perdere un pubblico appassionato.
Canova sottolineava la radicalità
della rottura con i canoni del genere e con le modalità tradizionali di
produzione e individuava il carattere giocosamente “postmodernista” di quei
telefilm prima ancora che il termine si affermasse con Lyotard e Jameson ne tratteggiasse
gli elementi costitutivi di tecnica e di gusto: citazione, ricombinazione,
nostalgia serializzata.
Nell’articolo c’è una curiosità:
si parla di un episodio, l’unico, in cui compare la moglie del protagonista,
interpretata da Angie Dickinson, resa famosa dal ruolo di donna poliziotto in
un più antico e fortunato serial. Benché
appassionatissimo del tenente e vizioso delle sue repliche, non ho mai visto io
quel telefilm: ho l’impressione che dopo il primo passaggio lo abbiano fatto
sparire per conservare efficacia al tormentone di una “signora Colombo” sempre
citata e mai visibile. (S.L.L.)
Angie Dickinson police women (1975) |
Il guinness dei primati (edizione
1981) lo cita come l'attore televisivo più pagato: dai 300.000 ai 350.000
dollari per ogni telefilm. Ma la tv non è la sola a corteggiarlo: per il cinema
ha da poco terminato California dolls,
l'ultimo film di Aldrich in cui fa il manager di due fascinosissime lottatrici.
Un occhio di vetro, una spalla
più bassa dell'altra, un'andatura sgraziata e claudicante: Peter Falk sembra
davvero incarnare l'altro volto del neo-divismo americano, quello che cerca di
competere con l'erotismo dei nuovi sex-symbols maschili (William Hurt, Kurt
Russe) trasformando la bruttezza e la goffaggine in elementi di seduzione.
Guardatelo ad esempio nel serial Colombo,
tutte le domeniche pomeriggio alle 13,30 sulla rete 2 della Rai. Trasandato,
pasticcione, un laido trench bianco-sporco
sulle spalle, per un'ora e mezza Falk invade letteralmente lo schermo col suo
gesticolare nevrotico e impacciato: si gratta la fronte, agita le braccia,
solleva l'indice, succhia sigari puzzolenti, strapazza matitine e blocchetti
d'appunti, appare pateticamente a disagio in qualunque situazione.
Poi, d'improvviso, tira fuori le
unghie, diventa freddo e micidiale ed esibisce geniali acrobazie
logico-deduttive. Al dilagare delle saghe familiari tipo Dallas o La conquista del
west e all'apologia del lavoro di gruppo degli ultimi serials, coi loro staff
di medici e 1 loro studi di avvocati, Colombo
contrappone la patetica presenza dell'eroe solitario, ricamando intorno al
genere della Detective story una
sorta di malinconico «come eravamo» Intriso di memorie cinefile e di nostalgie.
A prima vista il personaggio appare
decisamente fuori moda, lavoro solo sui deltti molto soft che si consumano nei
salotti dell'alta società californiana, si muove in intrighi sempre molto
ripuliti e costruiti con garbo e con cortesia. Eppure, nonostante la patina
retro, Colombo mette in atto alcune rotture radicali, sia nei confronti dei
meccanismi tradizionali della detective story, sia rispetto alle pratiche
produttive del serial televisivo. In primo luogo Colombo dilata al massimo il carattere ludico da sempre insito
nella detective story cinematografica. Colombo annulla ogni tensione rispetto
all'identità dell'assassino, facendocelo vederti chiaramente all'inizio di ogni
episodio. Il cinema l'aveva già fatto, ma occasionalmente. Colombo trasforma
invece questa iniziale rivelazione di identità in un dato seriale: fornisce
regolarmente allo spettatore un sapere che il detective non possiede ancora e
poi punta tutte le sue carte non più sulla scopetta del colpevole, ma sull'attesa
che venga colmato lo scarto di informazioni verificatosi tra personaggio e
spettatore. Il telefilm serializza insomma la propria tensione all'entropia,
eccita il desiderio che anche l’altro (il goffo Colombo) conosca ciò che noi
già conosciamo, produce piacere facendolo scaturire dalla socializzazione del
sapere, dalla diffusione e dalla circolazione di informazioni. Ma c'è un
secondo motivo che fa di Colombo un
serial importante e radicale: la sua capacità di giocare al massacro con le
regole del cinema, con la sua memoria, con le sue ingombranti presenze d'autore.
In ogni episodio della serie mutano infatti l'autore del soggetto e quello
della sceneggiatura, così come muta il responsabile della regia, senza che
risultino vistose differenze tipologiche tra un episodio e l'altro. Colombo è
sempre uguale a se stesso a prescindere dall'autore che ha inventato
l'intreccio o dal regista che l'ha messo in scena. Il che significa che non è
più l'autore a produrre un personaggio serializzato, ma è il personaggio dalle
caratteristiche predeterminate a serializzare il lavoro degli autori,
costringendoli ad omogeneizzare le loro tecniche produttive e ad adeguarle al
sistema di attese e di udienze già affermato nel pubblico.
L'operazione è particolarmente
interessante perché ad essa si prestano non solo giovani registi di matrice
televisiva, ma anche i nomi come Cassavetes, autore di un paio di episodi
passati quasi inosservati e dispersi in mezzo a quelli diretti a nomi meno
conosciuti (Leo Penn, Howard Berk, Robert Douglas, Bernard L. Kowalski, James
Frawley). C'è perfino chi giura di aver visto, nei titoli di coda di un episodio
trasmesso tempo fa, il nome di Steve Spielberg alla regia. L'ipotesi è più che
plausibile, vista l'eterogeneità di coloro che si sono divertiti a riprodurre
la tipologia del personaggio di Falk.
Prendete ad esempio gli episodi
mandati in onda dalla rai nelle ultime settimane: uno è firmato nientemeno che
da Jonathan Demme (quello di Melvin and howard,
con una Mary Steenburgen da oscar), un altro è di Ted Post (molta tv, ma ancne Nightkill, l’ultimo rum, con Robert
Mitchum), in un altro anco¬ra la regia è addirittura di Ben Gazzara (Assassinio a bordo, trasmesso il 24
gennaio). Ma Gazzara non è l'unico attore a trasformarsi in regista del serial.
Un caratterista come Patrick Mc Goohan (quello che faceva il direttore del
carcere in Fuga da Alcatraz di Don
Siegel) diventa per esempio protagonista in molti telefilm della serie e arriva
addirittura a curare la regia dell'episodio Doppio gioco, trasmesso il 14
febbraio. E' un vero e proprio rimescolamento di ruoli e di funzioni, una
beffarda dissoluzione di ogni seriosità produttiva, un gioco al camuffamento e
all'occultamento. In queste condizioni la presenza dell'autore, ridotta ai
minimi termini, gioca ad esprimersi attraverso segnali mascherati e crittogrammi
segreti disseminati qua e là nella trama dei vari episodi. L'autore occulta se
stesso così come un tempo occultava l'identità dell'assassino: mette in scena
la propria assenza, la propria assoluta identità con tutti gli altri autori della
serie, ed offre il tutto alle perversioni investigative dello spettatore. In
uno degli ultimissimi episodi ad esempio il regista Nicholas Colasanto firma il
film attribuendo ad alcuni personaggi il proprio nome anagrammato (Solecanto).
In un altro episodio l'autore fa comparire per la prima e unica volta la moglie
di Colombo (sempre nominata, ma perennemente assente in tutti gli altri episodi)
e ne affida la parte nientemeno che ad Angie Dickinson, quasi a suggerire con
questa presenza una precisa dichiarazione di «estetica».
Sono piccoli vezzi cinefili, che
richiamano alla lontana le apparizioni camuffate di Hitchcock nei propri film.
Ma anche questi vezzi, o questi residui di presenza d'autore, sono possibili
ormai solo come citazioni, sberleffi, ricordi di ciò che il cinema è stato.
Dopo aver concentrato e riciclato la durezza del cinema, con Colombo la tv ne
serializza la nostalgia.
“il manifesto”, 28 febbraio 1982
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