Nel frastuono che accompagna le
«celebrazioni» del ventennale del '68, sembra prevalere l'immagine di
un'esplosione più o meno inattesa e improvvisa. E certo, i sondaggi di opinione
dei primi anni sessanta, con la loro insistenza sul dato delle «tre M»
(Macchina, Moglie, Mestiere) che avrebbero rappresentato la scala dei valori al
vertice delle aspirazioni della generazione dei ventenni — o giù di lì — di
allora, sembrano confermare questo tipo di interpretazione.
Tuttavia, al di là dei segnali
che già alla fine del 1966 ci giungevano dai campus studenteschi degli Stati
Uniti e dal fervore della West Coast californiana, taluni non trascurabili
sintomi di un non tanto sotterraneo mutamento in corso ci erano venuti dal
senso stesso della nostra società. Di alcuni, in verità, si è già variamente
scritto, anche se forse non con la necessaria evidenza, nel corso delle
rievocazioni: il femminismo, il dibattito politico teorico, emergente
soprattutto nei «Quaderni rossi» (1961) di Raniero Panzieri, ma già presente in
alcune altre riviste e periodici (e basti accennare a «Passato e Presente»
1958, a «Quaderni piacentini» 1962, a «Re Nudo»).
Minore attenzione, mi sembra, è
stata finora prestata ai segnali che, già dalla fine degli anni Cinquanta,
provenivano dal dibattito letterario e dall'aggregarsi e disaggregarsi di
posizioni (e di «gruppi») che lo avevano caratterizzato.
Romano Luperini, nel suo attentissimo
«manuale» pubblicato da Loescher nel 1981, Il
Novecento, apparati ideologici, ceti intellettuali, sistemi formali nella
letteratura italiana contemporanea, aveva già colto il significato, insieme
culturale e «sociologico» della nascita di «Officina» (1955-1959), del «Menabò»
(1959-1967), di «Il Verri» (1956) e di altre riviste.
Osserva Luperini: «La storia degli
intellettuali-letterati degli anni sessanta è quella di una scissione e della
ricerca di una sua difficile composizione: l'intellettuale si scopre, a un
tempo, tecnico specializzato addetto a un campo particolare della
sovrastruttura e lavoratore che vende la propria forza-lavoro ... lusingato
dalle prospettive dello sviluppo scientifico e tecnologico e dei servizi che
esso gli può garantire attraverso l'offerta di nuove mansioni, ma anche terrorizzato
dalla perdita di un orizzonte ideologico e di una funzione umanistica e ridotto
in una condizione lavorativa che lo eguaglia alla massa degli altri lavoratori
dipendenti. L'alternativa che egli si pone (e che esploderà nel '68) è tra la
semplice ridefinizione del ruolo (che appare comunque indispensabile) e la sua
contestazione».
Vi è da aggiungere che non è
certo casuale che la tensione e la contraddizione siano particolarmente
avvertite da coloro che Luperini definisce «intellettuali-letterati». Gli
intellettuali-tecnici (in senso lato) si inseriscono abbastanza facilmente nel
ciclo produttivo dell'industria e dei servizi; ivi compreso il grande «servizio»
dell'insegnamento dei vari ordini e gradi (checché se ne dica il ruolo dei docenti,
nel '68, è stato, in conseguen¬za, del tutto marginale, e talvolta persino
conservatore, rispetto alla esplosione studentesca).
Radicalmente diversa è invece la
situazione dell'intellettuale-letterato, tradizionalmente arroccato nella
realtà — ma soprattutto nella idealizzazione — di una sua autonomia e
«libertà». È proprio su questa figura — culturale e sociale che si accumulano
le contraddizioni segnalate da Luperini. Sul terreno più specificamente
«politico» (in modo diretto e indiretto) avviene un processo che presenta non
poche analogie con quanto sopra accennato. La fascinosa formula gramsciana
«specialista+politico» appare, in pratica scarsamente percorribile. Da un lato,
infatti, gli «intellettuali» (specie se «umanisti», «letterati») che si
inseriscono integralmente nell'attività politica (gli Alicata, gli Ingrao, e
tanti altri) recano sì alti contributi alla gestione della politica, ma rinunziano,
di fatto, alla loro «specialità» (di poeta, per esempio, Ingrao, di critico
Alicata, ecc.). Dall'altro lato coloro che non operano questa scelta finiscono
per sentirsi, in misura maggiore o minore, ridotti al ruolo di «fiancheggiatori».
Possono accettarlo o possono, come avviene tra l'altro proprio attraverso le
nuove riviste, politiche ma anche letterarie, progettare e perseguire, più o
meno consapevolmente, un proprio, diverso, ruolo, che sia «autonomo» e,
generalmente, improntato a una più o meno accentuata venatura critica nei
confronti dei partiti (in primo luogo del Pci, come quello che aveva agito come
grande polo di attrazione e di riferimento).
I processi, i percorsi
individuali, non sono certo così lineari e schematizzabili. Un punto di crisi è
senza dubbio il 1956, con la denunzia dei crimini dello stalinismo e la rivolta
di Ungheria; ma più in profondo agisce la mutazione sociale che trasforma in
modo accelerato il paese da agricolo-industriale a sempre più accentuatamente
industriale-agricolo.
Il quarto fascicolo del «Menabò»,
la rivista di Elio Vittorini e Italo Calvino, dedicato a «Letteratura
e industria» (1961), è
sintomatico della presa di coscienza di questi fenomeni strutturali, anche se
la
risposta agli interrogativi posti
da questa svolta non può che essere — e lo rimarrà a tutt'oggi — in-
quieta e dubitativa.
Questi vari fili, in un campo, come
quello della letteratura, assai più intrecciato con il contesto politico e
sociale di quanto non si soglia pensare, si annodano, in misura rilevante, con
la nascita del «Gruppo '63» che prende appunto nome dalla data della sua fondazione
e del suo primo pubblico convegno palermitano. Molte cose si potrebbero
osservare a questo proposito. Basti qui accennare al dato per cui i suoi
principali iniziatori ed esponenti (Sanguineti, Porta, Eco, ecc.) appartengono
a una generazione troppo giovane per avere direttamente compiuto l'esperienza
dell'antifascismo militante e della Resistenza (è una connotazione — si badi —
che non vuole avere nessun senso limitativo, e, meno che mai, negativo).
Si aggiunga che il «Gruppo» trae
le sue origini da un'area culturale e sociale specifica (Milano, con la sua
tradizione industriale, positivista, antistoricista), e che in esso è ben
presente sin dall'inizio una volontà «manageriale», il progetto, cioè, di agire
inserendosi in prima persona, e con funzioni direzionali, nell'attività
aziendale, editoriale.
Spiccano dunque tratti che
caratterizzano molti aspetti del movimento sessantottesco: l'an-titradizionalismo
(l'Italia è cambiata), il respiro europeo e internazionale, l'aggressività
critica verso r«establishment», «l'esistente» (nei campi specifici), e,
particolarmente , il progetto di «autogestione»; da ultimo, infine, il senso
vivo della spettacolarità, della pubblicità in senso ampio, del confronto anche
aspro, del partecipare a una «impresa comune».
Senza che se ne voglia fare una
regola generale, sembra perciò si possa dire che, in questo caso e
relativamente all’Italia, la letteratura abbia «anticipato» su fenomeni sociali
di gran lunga più vasti e rilevanti.
“Il Contemporaneo – Rinascita”,
Speciale Per capire il ’68 , 12 marzo
1988
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