E’ davvero la porta del Molise,
questa cittadina che vi balza incontro quando, lasciata l'autostrada del Sole a
San Vittore, vi addentrate in auto verso l'interno. Un'ora e mezza da Roma o da
Napoli può bastare. E la cittadina vi impressiona subito con il suo castello
dall'ampia mole a torri ricurve, con le guglie dei due campanili che sembrano
farsi la concorrenza. Ma Venafro è anche ricca di segreti che sfuggono al
viaggiatore abituale, tanto più che questi, normalmente, si limita ad
attraversarla soltanto sulla via per Isernia e Campobasso.
Noi vogliamo rivelare questi segreti,
o almeno alcuni di essi. E per comprenderli premettiamo che Venafro non fu
forse fondata dal leggendario Diomede, come vuole la tradizione, ma certo fu
sanni-tica, come dimostrano i tratti di mura ciclopiche sulle pendici del monte
che la sovrasta, e soprattutto romana.
Il primo segreto sta nelle vie di
quest'epoca, che si conservano con fedeltà impressionante in quelle moderne.
Mettetevi da un capo o dall'altro di queste ultime e guardate che rettifili,
che incroci a regolari distanze. E' una vera e propria "quadrettatura",
come facevano i Romani, con un sistema di cardini e di decumani che si
tagliavano ad angoli retti.
Il secondo segreto sta negli edifici
antichi. A monte del paese, anche se recintato sì da impedire l'accesso, potete
vedere il teatro romano, di grandi dimensioni, appoggiato alla montagna. A
valle, poco oltre la stazione ferroviaria, ecco il fenomeno più suggestivo di
tutti, un ovale di stalle e fienili che copre esattamente le mura
dell'anfiteatro romano.
La zona è chiamata Verlasce, e
sul nome correvano finora molti dubbi. Ma ora una spiegazione viene da Franco
Valente, 1'architetto che ha studiato la storia della cittadina. Verlasce,
dunque, verrebbe da perilasium,
adattamento latino di una parola greca che vuol dire "giro",
evidentemente per la caratteristica pianta dell'antico edificio. Si
spiegherebbe così anche il discusso termine medievale parlascio, dato a Firenze
all' "anfiteatro" in cui veniva tenuto il Parlamento.
L'Espresso - 19 Dicembre 1982
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