Io non so scrivere di Giosuè Carducci come del grande Poeta
d’Italia. Per me egli non è Enotrio Romano, non l’ardente cantore di cui il
nome va, risonante di gloria, per il mondo. Egli è per me l’amico adorato,
l’ideale della mia sognante fanciullezza, il secondo padre della mia orfana
gioventù. E la sua mano mi sorresse e m’innalzò nella turbolenta primavera di
mia vita.
“Carducci!” Ero una piccola bimba, seduta con la bambola
alle ginocchia di mia madre, quando per la prima volta udii quel nome. La mia
dolce mamma tedesca parlava di poesia italiana con suo fratello Rudolph Lindau,
venuto dalla Germania a trovarci. Dante, Petrarca, Leopardi …
I nomi passavano nel loro suono familiare e incompreso, noti
e vuoti al mio orecchio infantile. Poi un nome nuovo: Carducci. Mia madre citò
con la sua cara voce mite un sonetto:
Passa la nave mia,
sola tra ‘l pianto
Degli alcion per
l’acque procellose …
L’ultima strofa colpì la mia giovine fantasia:
Voghiam, voghiam, o
disperate scorte,
Al nubiloso porto
dell’oblio,
A la scogliera bianca
della morte.
Ricordo che mia madre ripetè lentamente i due ultimi versi.
Ahimé! Pochi mesi dopo, la nave sua fu chiamata alla tragica scogliera. E
passò, sola tra ‘l pianto, nelle buie e silenziose acque.
E non udii più pronunciare il nome di Carducci.
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Un giorno, nel 1890, a Milano, mi trovai timida e tremante
dinanzi al formidabile scrittoio dell’editore Emilio Treves. Egli teneva tra
due dita sdegnose un sottile rotolo manoscritto, che io gli avevo portato.
- Che roba è? – mi chiese gli.
Io risposi arrossendo che erano poesie.
- Per carità! Porti via, porti via – diss’egli agitato.
- Ma come – balbettai – se non le ha né pur lette!
- Leggerle?! – esclamò il commendatore con la sua grossa
risata – leggerle?! Crede Lei che noi stiamo qui a leggere poesia? Noi siamo
qui per fare degli affari. Buon giorno!
Forse gli apparvi piccola e triste quando volsi le spalle e
me ne andai verso la porta, perché aggiunse come per consolarmi: - Me ne
dispiace, creda! Ma ci vorrebbe, per esempio, una prefazione del Carducci.
Allora si potrebbe riparlarne.
“Del Carducci! -
pensai – Ma che cosa dice?”
Giù nella via la mia governante, Miss Gann, mi aspettava.
Prima ch’io salissi mi aveva detto: - Guarda di insistere per la copertina, che
sia celeste e oro! Su ciò sii incrollabile. Quando mi vide tornare mi disse: -
Ebbene?
- Egli si è burlato di me – risposi abbattuta. – Disse che
lo stamperebbe con una prefazione di Carducci.
- E chi sarebbe? – chiese Miss Gann.
- Oh Dio, uno come Dante, morto trecent’anni fa.
Andammo melanconicamente a casa.
Ci venne incontro Italo, mio fratello prediletto. Quando udì
la mia storia disse: - Ma prendi il primo treno per Bologna e va a cercarti la
prefazione.
E così feci.
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Il giorno seguente - ricordo che faceva gran freddo – salivo le scale ripide e strette della casa di Carducci in Bologna; la storica casa sulle Mura di porta Mazzini, dove allora, come oggi, il poeta viveva nella più austera semplicità. Io tremavo e mi dicevo: “Mio Dio, avessi almeno letto l’Inno a Satana!” Poi mi consolavo pensando che avevo il cappello riguarnito da Miss Gann con delle margherite celesti che mi stavano molto bene. E per strada avevo comperato le Odi Barbare e letto rapidamente All’Aurora; potevo dunque subito citare qualche cosa.
A dir vero, avevo trovato poco di citabile, e quando suonai
il campanello non ricordavo più niente. Solo mi giravano nella testa le “rosse
vacche del cielo” e mi domandavo esterrefatta come avrei potuto farle entrare
con apparente naturalezza nella conversazione.
Un uomo aprì la porta.
- E’ in casa il signor Carducci?
- Sì.
- Favorisca dirgli che sono … che vengo … che arrivo …
- Sissignora – disse l’uomo, guardandomi con occhio
paziente.
- Gli dica che ho fatto un lungo viaggio per vederlo – dissi
tutto d’un fiato.
- Sissignora – ripetè l’uomo, e sparve.
Tornò.
- Il signor Carducci dice che non è re Salomone. Favorisca
entrare.
Entrai. Dopo pochi istanti la porta del salotto si aprì, e
Carducci entrò. Vidi che aveva una testa da Imperatore Romano, coperta di ricci
grigi, occhi cupi e profondi, e la bocca severa.
- Che cosa vuole? – mi disse.
- Buon giorno – risposi fiocamente. – Vorrei una prefazione
alle mie poesie.
Seguì un silenzio che mi fece sudar freddo.
- Ah! – disse Carducci finalmente. – Lei è una poetessa.
Credevo fosse la regina di Saba.
Nessuna risposta appropriata si presentò alla mia mente. E
tacqui.
- Dunque, una poetessa! – ripetè Carducci. – Che cosa ha
letto?
Mi pareva che avrebbe dovuto dire: “Che cosa ha scritto”. E
rimasi di nuovo attonita e muta.
- Dei nostri grandi che cosa sa? –
Ecco! Era il momento di collocare le rosse vacche! Ma erano
scappate. (Mi pareva di sentirmele galoppare sul cuore). E dietro a loro
correvano i miei pensieri, incoerenti, assurdi.
E Carducci, professore, interrogava severo:
- Che cosa conosce Lei di Dante?
- Le illustrazioni del Doré – balbettai, mossa da un impeto
di sincerità.
Carducci rise. Rise d’un caro riso, inaspettato e gaio.
- Segga – mi disse.
Ed io sedetti; e gli raccontai di Treves, e di Miss Gann, e
di mio fratello Italo. Tolsi anche dalla tasca le Odi Barbare, e gli dissi che l’avevo creduto morto trecent’anni fa.
Parve assai contento. Ma quando gli diedi il manoscritto dei
versi il suo viso si oscurò.
- Hm! – brontolò, spiegando il primo foglio – che bella
scrittura! Anch’ io – aggiunse guardandomi ferocemente come se lo avessi
contraddetto – anch’io ho una bella scrittura.
Poi cominciò a leggere:
Vieni, amor mio …
Borbottò i primi versi nella barba; disse più forte la
seconda strofa. La terza la recitò ad alta voce, accompagnando il ritmo con un
gesto della mano destra, come per battere il tempo:
A sfondare le porte al
paradiso,
E riportarne l’estasi
quaggiù.
Vi fu un momento di silenzio. Poi Carducci diede forte il
pugno sulla carta.
- Per Dio Bacco, questa donna ha ingegno! – disse.
E rimase immobile, guardandomi fisso con vividi occhi. Io
non sapevo se era meglio dirgli “Grazie”, o pure “Prego!” o “S’immagini!”
quando d’un tratto si levò, e tormentandosi la barba (come bene ho imparato di
poi a conoscere quel gesto!) mi disse ruvidamente: - Addio.
- Addio – gli risposi come trasognata, ed egli mi aprì la
porta.
Io gli stesi la mano e avevo voglia di piangere.
- Dove ha il manicotto? – mi chiese improvvisamente.
- Non so – dissi, e risi.
Carducci andò girando distratto per la stanza a cercarlo.
Allora gli spiegai che non avevo manicotto con me. Ed egli mi guardò fosco
sotto le ciglia aggrottate, pensando ad altro.
Mi balzò in
mente il leone di Browning:
You could see by these eyes wide and steady
He was leagues in the desert already.
Con un tuffo di gioia nel cuore intesi che Carducci pensava
ai miei versi, e che per loro aveva dimenticato me.
Più tardi, quando lo venni a conoscere meglio, appresi che
era incapace di pensare a più di una cosa per volta. Se il suo pensiero era
rivolto altrove, ciò che gli stava d’intorno spariva.
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Mesi dopo, quando Treves aveva pubblicato versi … e prefazione, io dissi a Carducci: - Perché, quel giorno, chiedeste del mio manicotto?
- Che giorno? Che manicotto? – diss’egli.
Io gli rammentai che era andato cercandolo per tutto il suo
salotto.
- Tu sogni – disse impaziente. – E sogni stolte cose. Mai non ho cercato un manicotto. Non so nulla di manicotti!
- Tu sogni – disse impaziente. – E sogni stolte cose. Mai non ho cercato un manicotto. Non so nulla di manicotti!
Da Carducci, Treves, 1920
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